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Messaggio del 2 febbraio 1990: Figli cari! Sono con voi da nove anni e da nove anni vi ripeto che Dio Padre è l’unica via, la sola verità e la vera vita. Io desidero mostrarvi il cammino verso la vita eterna. Desidero essere il vostro legame per una fede profonda. Prendete il rosario e riunite i vostri figli, la vostra famiglia intorno a voi. Questo è il cammino per ottenere la salvezza. Date il buon esempio ai vostri figli. Date il buon esempio anche a coloro che non credono. Non conoscerete la felicità su questa terra e non andrete in cielo se i vostri cuori non sono puri ed umili e se non seguite la legge di Dio. Vengo a chiedere il vostro aiuto: unitevi a me per pregare per quelli che non credono. Mi aiutate molto poco. Avete poca carità, poco amore verso il prossimo. Dio vi dato l’amore, vi ha mostrato come perdonare e amare gli altri. Perciò riconciliatevi e purificate la vostra anima. Prendete il rosario e pregatelo. Accettate con pazienza tutte le vostre sofferenze ricordando che Gesù ha sofferto con pazienza per voi. Lasciatemi essere vostra madre, il vostro legame con Dio e con la vita eterna. Non imponete la vostra fede a coloro che non credono. Mostratela loro con l’esempio e pregate per loro. Figli miei, pregate!

«Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale» di Padre Raimondo Marchioro

14/03/2005    2793     Vita Cristiana    Chiesa  Conversione 
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Nelle nostre considerazioni sul cammino verso la santità non possiamo trascurare la meditazione di tre argomenti molto importanti: la fine della nostra vita terrena, l’incontro con Dio e il conseguente premio o castigo, il paradiso o l’inferno.
Poche sono le certezze della nostra vita terrena, perché essa è davvero avvolta nel mistero. Come il pesce vive immerso nelle infinite profondità dell’oceano, così l’uomo svolge la sua esistenza nel mistero.
Dalle poche cose certe cerchiamo di interpretare le incerte e misteriose. All’uomo infatti non interessano le opinioni, ma le certezze.

1) Una di queste certezze e proprio «la nostra sorella morte corporale», come la chiamava S. Francesco d’Assisi nel suo Cantico delle creature. Di essa non vi è alcun dubbio. Non sono necessari tanti argomenti per convincerci della certezza di questa realtà. Nella storia dell’umanità nessun uomo, per quanto pazzo, si è mai lusingato di non morire.
Dal momento della nascita ci siamo incamminati, senza mai fermarci, inesorabilmente verso la tomba.
Nella lettera agli Ebrei si legge: «... è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che verrà il giudizio...» (Eb. 9,27). L’autore del Salmo 88 si domanda: «Quale vivente non vedrà la morte, sfuggirà al potere degli inferi?» (Sal. 88,49).
Nella nostra vita presente la morte è una delle realtà più certe e nello stesso tempo più incerte: certa sotto un aspetto e incerta sotto un altro. Siamo sicuri che moriremo, ma quando? dove? come ? improvvisamente? e soprattutto siamo assillati dalla domanda:
«Dopo questa vita ce ne sarà un’altra o piomberemo nel nulla da dove proveniamo?»
Il Conc. Vat. 11, a questo proposito, ci dice: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l’uomo, al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, e più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre» (Gaudium et spes, 18).
Di fronte a questi terribili interrogativi non turbiamoci, ma proseguiamo le nostre riflessioni e cerchiamo di approfondire la realtà del nostro destino eterno.
Io ho la vita che mi è stata data, non perché ho voluto io né quando ho voluto io. Ed essa mi verrà tolta non perché vorrò io né quando vorrò io. Dunque la vita che possiedo non è mia. Di qui tre domande:
1 - Chi me l’ha data? 2 - Perché mi è stata data? 3 - E dopo questa vita ce ne sarà un’altra oppure piomberò nel nulla da dove provengo?

2) Prima di tutto cerchiamo lumi dalla ragione per rispondere a tali interrogativi.
Il Conc. Vat. II, continuando quanto sopra riferito, afferma: «Ma l’istinto del cuore fa giudicare rettamente l’uomo, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile come è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento della longevità biologica non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore che sta dentro invincibile nel suo cuore» (Gaudium et spes, 18).
La sana filosofia ci insegna che nel nostro essere esiste un qualche cosa che è al di sopra dei sensi, non composto di parti e cioè spirituale e, perciò, immortale; questo qualche cosa è l’«anima».
1 - Oltre la ragione anche il senso comune ci assicura questa verità.
Si chiama senso comune tutto ciò che viene suggerito e sostenuto costantemente da tutti gli uomini (moralmente), di tutti i tempi, e che è secondo le esigenze della natura umana.
Nella filosofia il senso comune è un argomento probativo di verità.
Nella storia dell’umanità tutti gli uomini di tutti i tempi hanno sempre sostenuto una sopravvivenza dell’uomo dopo la morte pur non sapendo determinarne il modo.
2 - Gli uomini, infatti, sempre hanno avuto cura dei propri defunti e dei loro sepolcri e non solo per affetto verso i propri cari, ma per un’intima convinzione che, dopo la morte, avrebbero continuato un’altra vita.
3 - L’uomo ha sempre sentito vivo in sé il senso della colpa.
Nella coscienza antecedente egli sente forte una voce che gli vieta di compiere certe azioni, in quella conseguente poi, se ha aderito alle suggestioni del male, sente il rimorso, una voce, cioè, che lo rimprovera di aver compiuto quelle azioni cattive e allora sente vivo il desiderio di cancellarle con il sacrificio espiatorio.
Quale significato avrebbe in noi tale istinto se, dopo la morte, tutto finisse? Di fronte a questa considerazione la nostra natura si ribella e non è capace di accettare un simile destino, appunto perché ciò non è secondo la sua natura, la quale è fatta per l’eternità.
4 - L’uomo ancora con il pensiero può uscire dal tempo e dallo spazio e inoltre in lui, a differenza delle bestie, esiste il progresso, cioè un miglioramento di vita e delle strutture sociali; il pensiero e la parola, che serve per esprimere ad altri i nostri concetti, sono spirituali.
Tutti questi elementi manifestano chiaramente che nell’uomo c’è appunto un qualche cosa (anima), che è superiore ai sensi e che non è composta di parti e, perciò, spirituale ed immortale.

3) Ascoltiamo ora che cosa ci insegna la rivelazione (la fede, Gesù Cristo, il Figlio di Dio). Dopo la morte ci sarà un’altra vita?
Per rispondere sperimentalmente a questa domanda bisognerebbe morire e poi risorgere, cioè ritornare in questa vita per riferire ciò che esiste nell’altra. Ora tutti gli uomini che sono morti, non sono piu ritornati in questo mondo, eccetto uno, Gesù Cristo, che non è solo un uomo, ma è anche Dio e per questo meritano fiducia le sue affermazioni.
Gesù Cristo infatti è morto, è rimasto tre giorni nella tomba e poi è risorto per non mai più morire. Ebbene, che cosa ha detto Gesù Cristo circa la nostra sorte dopo la morte?
Egli ha affermato che, dopo la morte, ci sarà un’altra vita, che durerà per sempre. Non sappiamo come sarà questa vita, perché non ce l’ha riferito: ha detto solo che questa seconda vita sarà eternamente felice per i buoni, per coloro che muoiono in grazia di Dio, eternamente infelice per i cattivi, per coloro che muoiono in peccato mortale.
Ascoltiamo direttamente le parole di Gesù. «In verità, in verità vi dico: ‘Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna, non va in giudizio, ma passa da morte a vita’» (Gv. 5,24).
«Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno» (Gv. 6,51).
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno» (Gv. 6,54).
«Io sono la resurrezione e la vita: chi crede in me, anche se morto, vivrà; e chi vive e crede in me non morrà in eterno» (Gv. 11,25-26). «La volontà del Padre mio è che chiunque conosce il Figlio e crede in Lui, abbia la vita eterna; ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv. 6,40).
«Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto ciò che Dio vi disse? ‘Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe?’. Non è il Dio dei morti, ma dei vivi...» (Mt. 22,3 1-32).
«Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli angeli suoi... E costoro andranno all’eterno supplizio, i giusti invece alla vita eterna» (Mt. 25,4 1-46).
«Non vi meravigliate di questo, perché viene l’ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udranno la sua voce, e quelli che hanno operato il bene ne usciranno per la risurrezione della vita; quelli, invece, che fecero il male, per la risurrezione della condanna» (Gv. 5,28- 29). «Oggi sarai con me in Paradiso» (Le. 23,43).

4) Gli Apostoli e la Chiesa hanno sempre insegnato la dottrina di Gesù Cristo
Il Conc. Vat. II, a questo proposito, dice: «Se qualsiasi immaginazione viene meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini della miseria terrena. Inoltre, la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato (cfr. Rm. 5,21), insegna la fede cristiana che sarà vinta, quando l’uomo sarà restituito allo stato perduto per il peccato, dall’onnipotenza e dalla misericordia del Salvatore. Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo a stringersi a lui con tutta intera la sua natura in una comunione perpetua con l’incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, dopo aver liberato l’uomo dalla morte mediante la sua morte (cfr. iCor. 15,56-57). Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la morte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, con il dare la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio» (Gaudium et spes, 18).
La morte consiste nella separazione dell’anima dal corpo, il quale, separato dall’anima, si dissolve nei suoi elementi; l’anima invece, separata dal corpo, continuerà a vivere in Paradiso o in Purgatorio o all’Inferno, secondo i meriti acquistati fino al momento della partenza da questo mondo.
Subito dopo la morte ci sarà il giudizio particolare, che è il rendiconto della propria vita, che ogni uomo deve dare a Dio, Signore e Giudice supremo, per riceverne, secondo i meriti, il premio o il castigo.
La morte corporale è conseguenza del peccato originale; è una legge universale a cui volle assoggettarsi anche Gesù, inoltre è il termine non solo della vita terrena (e l’inizio della futura), ma anche del tempo utile per meritare, per cui il giudizio particolare deciderà inesorabilmente della sorte dell’uomo per tutta l'eternità.
Alla fine dei secoli ci sarà la resurrezione dei corpi, i quali si uniranno alle relative anime e, insieme, per sempre, o godranno il premio eterno o subiranno il castigo eterno.

5) Fatte queste considerazioni, non dobbiamo aver paura della morte, perché anche in questa particolarissima circostanza siamo nelle mani di Dio, che non desidera altro che il nostro bene.
«Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal. 22,4).
Certo, la natura umana si spaventa di fronte alla morte e ciò è comprensibile, ma nello spirito dobbiamo avere quella serenità e tranquillità interiore, fondata e ancorata nella fiducia in Dio, il Padrone dell’universo.
Anche N.S. Gesù Cristo ha avuto paura della morte nell’orto degli olivi: era la sua natura umana che sentiva la ribellione di fronte alla morte.
«...cominciò a rattristarsi e a sentire angoscia. Allora dice loro: ‘L’anima mia è triste fino alla morte’...» (Mt. 26,37-38).
«Padre, se vuoi allontana da me questo calice. Tuttavia non la mia volontà, ma la tua sia fatta... E il sudore divenne come gocce di sangue, che cadevano a terra» (Lc. 22,42-44).
Anche noi come Gesù dobbiamo dire: «Sia fatta, o Signore, non la mia, ma la tua volontà» (cfr. Lc. 22,42).
Non dobbiamo spaventarci neppure pensando al peggiore genere di morte che ci potrebbe capitare, perché noi, come un bambino tra le braccia della madre, ci abbandoniamo, ci addormentiamo nell’amore di Dio, che ci conosce molto bene e ci ama tanto. Se nella morte ci darà una croce pesante, ci concederà anche la forza per portarla.
E bene ogni tanto, a questo proposito, accettare con grande spirito di fede e di amore la morte in espiazione dei nostri peccati.
«O Signore, accetto qualsiasi genere di morte che tu vorrai mandarmi. Non voglio morire né un minuto prima né un minuto dopo, ma quando vorrai tu. Voglio che sia anche per me ciò che fu per te: Il mio cibo è compiere la volontà del Padre» (cfr. Gv. 4,34).
Al momento della morte la nostra anima si separerà dal corpo, che deporremo come un vestito e che ci verrà restituito alla fine dei secoli, alla resurrezione dei morti. Nel frattempo la nostra anima andrà o in paradiso o in purgatorio o all’inferno. Questa e solo questa deve essere la nostra paura:
morire in peccato mortale e andare all’inferno per tutta l’eternità.
Noi, ai quali il Signore ha dato il grande dono della fede, viviamo santamente in modo tale da ottenere non solo la salvezza dell’anima, ma anche la visione beatifica di Dio, in Paradiso, subito dopo la morte, senza passare per il purgatorio e ciò, non confidando nei nostri meriti, ma in quelli di Gesù Cristo, che vengono distribuiti dalla Chiesa specialmente nella S. Messa e nelle Sante Indulgenze. Non solo non dobbiamo avere paura della morte, ma dobbiamo, come i santi, essere felici di raggiungerla.
S. Paolo: «Ho il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio» (Fil. 1,23).
Con la morte infatti finisce il periodo della nostra prova, finiscono tutte le nostre sofferenze, finisce il tempo della nostra seconda gestazione e arriva per noi il «Dies Natalis», cioè il giorno della nascita alla vera vita, che durerà per sempre e che sarà come ce la siamo costruita noi in questa terra con la grazia di Dio e la nostra cooperazione.
Poste tali premesse, a nulla vale attaccarsi a questo povero mondo e alle sue concupiscenze, perché un giorno dovremo lasciare ogni cosa, tutto e tutti e per sempre e, se ci salveremo, l’unica gioia e felicità per noi sarà solo Dio, che «vedremo faccia a faccia» (cfr. ICor. 13,12) e per tutta l’eternità.
Finita questa vita terrena entreremo in un altro mondo; noi infatti «secondo la promessa» del Signore, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt. 3,13).
Ascoltiamo ora quanto ci dice S. Cipriano, Vescovo di Cartagine e martire (2 10-258) sulla paura che non dobbiamo avere della morte. «Noi non dobbiamo fare la nostra volontà, ma quella di Dio. E una grazia che il Signore ci ha insegnato a chiedere ogni giorno nella preghiera. Ma è una contraddizione pregare che si faccia la volontà di Dio, e poi, quando egli ci chiama e ci invita ad uscire da questo mondo, mostrarsi riluttanti ad obbedire al comando della sua volontà! Ci impuntiamo e ci tiriamo indietro come servitori caparbi. Siamo presi da paura e dolore al pensiero di dover comparire davanti al volto di Dio. E alla fine usciamo da questa vita non di buon grado, ma perché costretti e per forza! Pretendiamo poi onori e premi da Dio dopo che lo incontriamo tanto di malavoglia!
Ma allora, domando io, perché preghiamo e chiediamo che venga il regno dei cieli, se continua a piacerci la prigionia della terra? Perché con frequenti suppliche domandiamo ed imploriamo insistentemente che si affretti a venire il tempo del regno, se poi coviamo nell’animo maggiori desideri e brame di servire quaggiù il diavolo anziché di regnare con Cristo?
Dal momento che il mondo odia il cristiano, perché ami che ti odi e non segui piuttosto Cristo, che ti ha redento e ti ama? Giovanni in una sua lettera grida per esortarci a non amare il mondo, andando dietro ai desideri della carne: «Non amate né il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!» (lGv. 2,15-16). Piuttosto, fratelli carissimi, con mente serena, fede incrollabile e animo grande, siamo pronti a fare la volontà di Dio. Cacciamo la paura della morte, pensiamo all’immortalità che essa inaugura. Mostriamo con i fatti ciò che crediamo di essere.
Dobbiamo considerare e pensare spesso che noi abbiamo rinunziato al mondo e nel frattempo dimoriamo quaggiù solo come ospiti e pellegrini. Accettiamo con gioia il giorno che assegna ciascuno di noi alla nostra vera dimora, il giorno che, dopo averci liberati da questi lacci del secolo, ci restituisce liberi al Paradiso e al regno eterno. Chi, trovandosi lontano dalla patria, non si affretterebbe a ritornarvi? La nostra patria non è che il Paradiso. Là ci attende un gran numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora trepidanti per la nostra salvezza. Vederli, abbracciarli, tutti: che gioia comune per loro e per noi! Che delizia in quel regno celeste, non temere mai più la morte; e che felicità vivere in eterno!» (Dal trattato Sulla morte, di S. Cipriano, Vescovo e martire, Cap. 18, 24;26; CSEL 3,308, 312-314).
Quando, dopo la morte, ci incontreremo faccia a faccia (cfr. lCor. 13,12) con Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, vedremo la sua grandezza e bellezza, allora senza dubbio sentiremo vivo il dispiacere di non aver fatto di più per accrescere la nostra statura spirituale, quando eravamo nel corpo, in terra. Comprenderemo che i beni del mondo erano transitori, secondari e che ci erano stati dati come mezzi, strumenti e non come fine, perché il fine era solo Lui.
Ora finché siamo in tempo lavoriamo, lavoriamo spiritualmente per non pentircene poi, quando ormai sarà troppo tardi.