MaM
Messaggio del 26 febbraio 1984:«Pregate e digiunate. Sappiate che vi amo e vi tengo tutti sulle mie ginocchia».

LUCIA RACCONTA FATIMA - Parte seconda

02/07/2016    2433     Fatima    Fatima  Suor Lucia di Fatima 
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seconda memoria
Erano passati due anni dalla pubblicazione della “prima memoria”. S. E. il vescovo di Leiria, convinto della necessità di studiare a fondo gli avvenimenti di Fatima del 1917, ordinò a suor Lucia di scrivere la storia della sua vita e delle apparizioni, esattamente com’erano avvenute. La veggente ubbidì e redasse lo scritto tra il 7 e il 21 novembre 1937.


VOLONTA’ DI DIO, PARADISO MIO.

Eccellenza reverendissima,

sono qui con la penna in mano per fare la volontà di Dio; e siccome io non ho altri scopi, comincio con la massima che la mia santa fondatrice mi ha lasciato in eredità e che io nel corso di questo scritto ripeterò, a sua imitazione, molte volte: «Volontà di Dio, paradiso mio!».

L'Eccellenza vostra mi permetterà di compenetrarmi in tutto il senso di questa massima, affinché nei momenti in cui la ripugnanza o l'amore del mio segreto vorranno farmi tener nascosto qualche cosa, essa mi sia di norma e guida.

Avrei voglia di domandare a che cosa servirà questo scritto fatto da me, che non ho nemmeno buona calligrafia. Ma non chiedo nulla. So che la perfezione dell'ubbidienza non chiede ragioni. Mi bastano le parole dell'E.V. rev.ma, che mi dicono che è per la gloria della nostra santissima Madre del Cielo. Nella certezza dunque che sia così imploro la benedizione e la protezione del suo Cuore immacolato e, umilmente prostrata ai suoi piedi, mi servo delle sue santissime parole per parlare al mio Dio:

- Ecco qui, o mio Dio, l'ultima delle vostre serve, che in piena sottomissione alla Vostra santissima volontà, rompe il velo del suo segreto e lascia vedere la storia di Fatima tale e quale essa è. Non avrò più il piacere di godermi solo con Te i segreti del Tuo amore; ma in avvenire, altri canteranno con me le grandezze della Tua misericordia.

Eccellenza reverendissima,

«Il Signore ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua serva»: ecco perché i popoli canteranno le grandezze della Sua misericordia.

Mi pare, Eccellenza reverendissima, che il nostro buon Dio si è degnato di favorirmi con l'uso della ragione, fin da quand'ero una bambina molto piccina. Mi ricordo che avevo coscienza dei miei atti, da quando mia madre mi teneva in braccio; Ricordo che mi cullavano e mi addormentavo al suono di vari canti. E siccome ero la più giovane tra cinque bambine e un bambino, che nostro Signore aveva dato ai miei genitori, mi ricordo che c'erano spesso contese tra di loro, perché tutti mi volevano avere tra le braccia e stare con me. In questi casi, perché nessuno fosse vincitore, mia madre mi toglieva delle loro mani. E se lei, per il suo daffare, non poteva, mi affidava a mio padre, che a sua volta mi copriva di baci e carezze.

La prima cosa che imparai fu l'avemmaria, perché mia madre aveva l'abitudine di tenermi in braccio, mentre insegnava a mia sorella Carolina, cui venivo appresso, perché aveva cinque anni più di me.

Le prime due sorelle erano già grandi; e a mia madre piaceva che mi portassero in tutti i posti dove andavano, perché io ero un pappagallo che ripeteva tutto. Esse erano, come si dice al mio paese, a capo della gioventù. E non c'era festa o danza a cui non andassero. Carnevale, S. Giovanni, Natale, era d'obbligo: ci doveva essere il ballo. Poi c'era la vendemmia. E al tempo della raccolta delle ulive, c'era ballo quasi tutti i giorni. Nelle feste principali della parrocchia, come quella del S. Cuore di Gesù, la Madonna del rosario, S. Antonio, ecc., c'era sempre, la sera, la riffa dei dolci e il ballo non mancava. Eravamo inoltre quasi sempre invitate alle feste di nozze che si celebravano nei paesi vicini, perché mia madre, quando non era invitata come madrina, era invitata come cuoca. A queste nozze il ballo durava dalla fine del banchetto fino al mattino del giorno seguente. Le mie sorelle, siccome dovevano tenermi sempre al loro fianco, ci tenevano molto che fossi vestita come loro stesse. E siccome una di loro era sarta, non mi mancava fin d'allora il costume più elegante, usato dalle contadine del mio paese in quel tempo: la gonna pieghettata, la cintura lucida, la sciarpa con le punte che ricadevano all'indietro e il cappello con i suoi lustrini dorati e piume di svariati colori. Si sarebbe detto a volte che vestivano una bambola e non una bambina.

Nei balli mi mettevano sopra una cassapanca o sopra qualche rialzo, per non essere calpestata dai presenti e dove dovevo intonare vari canti al suono della chitarra o della fisarmonica. A questo scopo le mie sorelle mi facevano fare le prove, così come per ballare alcune danze, per il caso che mancasse qualche dama, cosa che io disimpegnavo con un'abilità singolare, attirando così le attenzioni e gli applausi dei presenti. Né mi mancavano premi e regali di qualcuno che voleva far piacere alle mie sorelle.

La domenica, nel pomeriggio, questa gioventù si riuniva nel nostro cortile: d'estate, all'ombra di tre grandi fichi; e d'inverno, sotto un porticato che avevamo nel luogo dove ora sorge la casa di mia sorella Maria. Là passavano il pomeriggio, giocando e conversando con le mie sorelle. Era là che si faceva la riffa dei regali di Pasqua e la maggior parte toccavano a me, perché alcuni io facevano di proposito per rendersi bene accetti.

Mia madre passava questi pomeriggi seduta sulla porta della cucina che dava sul cortile e di là poteva vedere quel che succedeva: a volte con un libro in mano, leggeva; a volte parlava con qualcuna delle mie zie o con le vicine che venivano a sedersi accanto a lei. Manteneva sempre la sua serietà abituale e tutte sapevamo che quello che diceva lei era come una parola della Bibbia e che era necessario ubbidirle senza indugio. Non ho mai visto nessuno che avesse il coraggio di dire in sua presenza una parola men che rispettosa o di poca considerazione. Era un detto comune tra quella gente che mia madre valeva più che tutte le figlie. Mi ricordo di aver sentito mia madre dire più volte: « Non so che gusto ci trovi questa gente a andare in giro a chiacchierare per le case degli altri. Per me non c’è niente come starmene in casa a leggere tranquillamente. I libri contengono cose tanto belle! E le Vite dei santi, che bellezza!».

Mi pare d'aver già detto V. E. come passavo i giorni della settimana, circondata di bambini del posto, che le donne, per poter andare a lavorare nei campi, chiedevano a mia madre di lasciare con me.

Mi pare inoltre che nello scritto che ho mandato all'E.V. rev.ma su mia cugina, dicevo quali erano i miei giochi e divertimenti. Per ora non sto qui a contarlo.

Circondata così d'ogni tenerezza e affetto, arrivai a sei anni. E, a dire la verità, il mondo cominciava a sorridermi; e soprattutto la passione per il ballo stava mettendo nel mio cuore profonde radici. E confesso che Se il nostro buon Dio non avesse usato nei miei confronti una speciale misericordia, con quello il demonio m'avrebbe perduta.

Se non sbaglio, ho già detto a V.E., nello stesso scritto, che mia madre aveva l'abitudine d'insegnare la dottrina cristiana ai suoi figli nell'ora della siesta, durante l'estate; d'inverno, la lezione era di sera, durante la veglia, dopo cena, intorno al focolare, mentre si arrostivano e si mangiavano castagne e ghiande dolci.

S'avvicinava dunque il giorno fissato dal parroco per la prima comunione solenne dei bambini della parrocchia. E così mia madre pensò che, siccome la sua figlioletta sapeva bene la dottrina e aveva compiuto i sei anni, poteva forse fare in quell'occasione la prima comunione. A questo scopo mi mandò, insieme a mia sorella Carolina, a assistere alle lezioni di dottrina, che il parroco faceva ai bambini in preparazione alla prima comunione. Andavo dunque tutta raggiante di gioia, con la speranza di ricevere di li a poco per la prima volta, il mio Dio. Il reverendo dava le sue spiegazioni stando seduto su una sedia che stava sopra una pedana. Mi chiamava vicino a lui e quando qualche bambino non sapeva rispondere alle sue domande, per svergognarli, mi faceva rispondere a me.

Arrivò dunque la vigilia del gran giorno e il reverendo fece andare in chiesa tutti i bambini in mattinata, per dire definitivamente il nome di quelli che erano ammessi. Quale non fu il mio dispiacere, allorché il reverendo mi chiama vicino a sé e, accarezzandomi, mi dice che avrei dovuto aspettare fino a sette anni. Cominciai subito a piangere e, siccome ero vicino a mia madre, singhiozzando piegai il capo tra le sue ginocchia.

Stavo in questa posizione, quando entra nella chiesa un sacerdote che il reverendo parroco aveva fatto venir di fuori per aiutare nelle confessioni. Quel reverendo chiese il motivo delle mie lacrime. Dopo essersi informato, mi portò in sacristia e mi esaminò sul catechismo e sull'eucaristia; dopo mi prese per mano, mi portò dal parroco e disse:

- Padre Pena, lasci che questa bambina faccia la prima comunione. La bimba sa quel che fa, meglio che molti di quelli li.

- Ma ha solo sei anni, - replicò il parroco.

- Non fa niente! Se lei vuole, mi assumo io questa responsabilità.

- E va bene, - mi disse il buon parroco - va dalla mamma e dille di si: domani farai la prima comunione.

La mia gioia non si può spiegare. Battendo le mani dalla contentezza e correndo per tutto il tragitto, andai a dare la bella notizia a mia madre, che cominciò subito a prepararmi per portarmi, nel pomeriggio, a fare la confessione.

Arrivando in chiesa, dissi a mia madre che volevo confessarmi da quel sacerdote di fuori. Quel reverendo stava confessando in sacristia, seduto su una sedia. Mia madre allora s'inginocchiò vicino alla porta, di fronte all'altare maggiore, insieme alle altre donne che stavano aspettando il turno dei loro figlioletti. Li davanti al Santissimo, mi fece le ultime raccomandazioni.

Quando toccò a me andai a inginocchiarmi ai piedi del nostro buon Dio, rappresentato in quel momento dal suo ministero, per implorare perdono dei miei peccati. Quando ebbi terminato, vidi che tutti ridevano. Mai madre mi chiama e mi dice: «Figlia mia, non sai che la confessione si fa a bassa voce, che è una cosa segreta? Tutti ti hanno sentito! Solo alla fine hai detto una cosa che nessuno ha capito che cos'era». E mentre tornavamo a casa, mia madre fece vari tentativi per vedere che scopriva quello che lei chiamava il segreto della mia confessione; ma non ottenne che un profondo silenzio.

Scoprirò dunque adesso quello che era il segreto della mia confessione.

Il buon sacerdote, dopo avermi ascoltato, mi disse questi brevi parole:

«Figlia mia, la tua anima è il tempio dello Spirito santo. Conservala sempre pura, perché Lui possa continuare in essa la sua azione divina». All'udire queste parole, mi sentii invasa di rispetto per il mio intimo e domandai al buon confessore come dovevo fare:

- Ti metti in ginocchio - mi rispose - il ai piedi della Madonna e le domandi con grande fiducia che abbia cura del tuo cuore e lo prepari per ricevere degnamente domani il suo caro Figlio e che lo conservi per Lui solo!

C'erano in chiesa parecchie immagini della Madonna. Ma siccome le mie sorelle adornavano l'altare della Madonna del rosario, perciò io ero abituata a pregare davanti a quella; e così ci andai anche questa volta a chiederLe, con tutto l'ardore di cui ero capace, che conservasse solo per Dio il mio povero cuore. Ripetei varie volte quest'umile supplica, con gli occhi fissi sull'immagine e mi parve che lei sorrideva e, con gesto di bontà, mi diceva di sì. Rimasi così inondata di gioia, che a malapena riuscivo ad articolare parola.

Le mie sorelle stettero su tutta la notte per farmi il vestito bianco e la corona di fiori. Io non potevo dormire per la contentezza e le ore non passavano mai. Così mi alzavo ogni tanto, andavo da loro a domandare se era gia giorno, se volevano provarmi il vestito, la corona di fiori ecc.

E finalmente spuntò il felice giorno, ma quanto ci volle per arrivare alle nove! Già vestita col mio vestito bianco, la mia sorella Maria mi portò in cucina per chiedere perdono ai miei genitori, per baciare loro la mano e chiedere la loro benedizione. Terminata questa cerimonia, la mamma mi fece le ultime raccomandazioni. Mi disse quel che voleva che io domandassi a nostro Signore quando lo avessi dentro al mio petto e mi lasciò andare con queste parole: «Soprattutto chiedi a nostro Signore che faccia dì te una santa», parole che mi rimasero così impresse in modo indelebile nel cuore, che furono le prime che dissi a nostro Signore subito dopo averlo ricevuto. E ancor oggi mi pare di udire l'eco della voce di mia madre che me le ripete. M'incamminai, con le sorelle, verso la chiesa. Per non insudiciarmì di polvere della strada, mio fratello mi portò in braccio.

Non appena arrivai in chiesa, corsi ai piedi dell'altare della Madonna, a rinnovare la mia domanda. Li rimasi a contemplare il sorriso della sera prima, finché le mie sorelle non vennero a prendermi per mettermi nel posto destinato a me. I bambini erano molti. Formavano quattro file, dalla porta della chiesa fino alla balaustra: due di bambini e due di bambine. Siccome io ero la più piccina, mi toccò il posto vicino agli angioletti, sul gradino della balaustra.

Cominciò la messa cantata e, a mano a mano che il momento si avvicinava, il cuore batteva sempre più forte, nell'attesa della visita di un Dio grande, che stava per scendere dal cielo per unirsi alla mia povera anima. Il rev. parroco scese tra le file a distribuire il pane degli angeli. Ebbi la fortuna di essere la prima. Mentre il sacerdote scendeva dai gradini dell'altare, il cuore pareva che volesse uscirmi dal petto. Ma appena ebbe posato sulle mie labbra l'ostia divina, sentii una serenità e una pace inalterabile; sentii che ero invasa da un'atmosfera così soprannaturale, che la presenza del nostro buon Dio mi diventava così sensibile come se Lo vedessi e lo sentissi con i sensi del corpo. Gl'indirizzai dunque le mie suppliche:

- Signore, fate di me una santa. Conservate il mio cuore sempre puro, solo per Te!

Qui mi parve che il nostro buon Dio mi abbia detto, nel fondo del mio cuore, queste parole precise:

- La grazia che oggi ti viene concessa, rimarrà viva nella tua anima e produrrà frutti di vita eterna.

La funzione terminò che era quasi il tocco, sia perché i sacerdoti di fuori avevano tardato a venire, sia a causa del sermone e della rinnovazione delle promesse battesimali. Mia madre venne a prendermi, preoccupata; pensando che non stessi più in piedi dalla debolezza. Ma io mi sentivo così trasformata in Dio, così sazia del pane degli angeli, che mi fu impossibile per allora prendere cibo. Da allora perdetti il gusto e l'attrazione per le cose del mondo, e mi sentivo a mio agio solo in qualche luogo solitario, dove potessi, tutta sola, ricordare le delizie della mia prima comunione.

Ma poche volte riuscivo a fare questo ritiro, perché oltre ad essere incaricata di badare ai bambini che le vicine ci affidavano, come ho già detto all'E.V. rev.ma, mia madre faceva anche da infermiera da quelle parti. Venivano a chiedere il suo parere, se si trattava di cose di poca importanza e le chiedevano di andare a casa loro, se il malato non poteva uscire. E lei allora passava la giornata, e a volte, la notte nelle case dei malati. E se la malattia durava a lungo e lo stato degli infermi lo esigeva, faceva passare la notte vicino a loro anche alle mie sorelle, perché i membri della famiglia potessero riposarsi. E se l'infermo era una madre di famiglia con bambini piccoli, che facevano rumore e disturbavano il malato, portava questi bambini a casa nostra e io ero incaricata di farli divertire. E li facevo divertire, insegnando loro a dipanare, facendo girare l'aspo al contrario, facendo girare i cannelli, insegnavo a fare matasse con l'arcolaio e a guidare le spole nel telaio.

C'era sempre molto lavoro dì questo genere, perché ordinariamente c'erano sempre in casa nostra varie ragazze di fuori, che venivano a imparare il mestiere di tessitrice o di sarta. Queste ragazze, per solito, davano sempre segni di grande attaccamento alla nostra famiglia e usavano dire che i giorni migliori della loro vita li avevano passati in casa nostra.

Siccome le mie sorelle, in alcuni periodi dell'anno, dovevano lavorare nei campi durante il giorno, tessevano e cucivano durante le veglie. Dopo la cena e le preghiere che seguivano, dirette da mio padre, si cominciava a lavorare. Tutti avevano qualcosa da fare. Mia sorella Maria andava al telaio; mio Padre le riempiva i rocchetti; Teresa e Gloria andavano a cucire e mia madre filava; Carolina e io, dopo aver messo in ordine la cucina, eravamo occupate a togliere imbastiture, a attaccare bottoni, ecc.; mio fratello, per tenerci svegli, suonava la fisarmonica, al cui suono noi cantavamo varie cose. I vicini venivano non poche volte a farci compagnia e usavano dire, che anche se non li lasciavamo dormire, si sentivano allegri e gli passavano i cattivi umori udendo la festa che facevamo noi.

Ho sentito parecchie donne che dicevano a mia madre: «Beata te! Che figli meravigliosi che il Signore ti ha dato».

A suo tempo, facevamo anche la spannocchiatura al chiaro di luna. Mi sedevo allora in cima a un mucchio di granturco e io ero incaricata di dare a tutti i presenti l'abbraccio-sorpresa, quando capitava una pannocchia di colore rosso scuro.

Non so se i fatti che ho appena contato sulla mia prima comunione, furono una realtà o un'illusione infantile. So però che essi hanno avuto sempre e hanno ancor oggi una grande influenza nell'unione della mia anima con Dio.

Non so nemmeno perché io sto qui a raccontare a V.E. tutte queste cose della vita di famiglia, ma è Dio che m'ispira così. Lui sa il motivo per cui lo fa. E’ forse perché V.E. rev.ma possa vedere come io dovevo essere sensibile alla sofferenza che il buon Dio stava per chiedermi, dopo essere stata tanto vezzeggiata. E siccome V.E. vuoi che io dica tutte le sofferenze che nostro Signore mi ha domandato e tutte le grazie che si è degnato, per sua misericordia, concedermi, mi pare che così mi sarà più facile dirle proprio così come sono avvenute. E poi me ne sto tranquilla, perché so che V.E. metterà nel fuoco tutto quello che vedrà che non ha utilità per la gloria di -Dio e di Maria santissima.

E così compii sette anni. Mia madre decise che dovevo cominciare a custodire le nostre pecore. Mio padre non era di questo parere e nemmeno le mie sorelle. Volevano per me, per l'affetto particolare che mi portavano, una eccezione. Ma mia madre non cedette: - come le altre - diceva, - Carolina ha ormai dodici anni. Perciò può cominciare a lavorare nei campi, o imparare a fare la sarta o la tessitrice, se ne ha voglia. E così mi fu affidata la custodia del nostro gregge.

La notizia che io cominciavo la mia vita di pastora si sparse rapidamente tra i pastori e quasi tutti vennero a propormi di essere miei compagni. Dissi a tutti di sì e mi misi d'accordo con tutti per andare ai monti. Il giorno dopo la montagna era piena di pastori e di greggi. Pareva coperta da una nuvola. Ma io non mi sentivo a mio agio in mezzo a tanto gridare. Allora ne scelti tre come compagne e, senza dir niente agli altri, ci mettemmo d'accordo per andare a pascoli completamente diversi. Le mie prescelte erano: Teresa Matias, sua sorella Maria Rosa e Maria Justino.

Il giorno dopo ce ne andiamo con le nostre greggi a un monte chiamato Cabeço. Ci dirigemmo al versante del monte che guarda a nord. Sul versante di questo monte a sud, resta Valinhos, che V.E. di nome deve già conoscere. E, sul versante rivolto a levante, c'è quella roccia, della quale pure ho parlato a V.E. nello scritto su Giacinta. Salimmo con le nostre greggi, fin quasi alla cima del monte. Ai nostri piedi c'era un grande bosco, che si stende nella piana della valle: ulivi, castagni, pini, lecci, ecc.

Sarà stato più o meno verso mezzogiorno, quando mangiammo il nostro spuntino. Dopo lo spuntino, invitai le mie compagne a recitare con me il rosario, cosa che accettarono volentieri. Avevamo appena cominciato, quando vediamo davanti ai nostri occhi, come sospesa nell'aria, sopra il bosco, una figura, come se fosse una statua di neve, che i raggi del sole facevano un po' trasparente.

- Che roba è quella? - domandarono le mie compagne un po' impaurite.

- Non so.

Continuammo la nostra preghiera, sempre con gli occhi fissi in quella figura, che scomparve non appena terminammo.

Io, secondo il mio solito, decisi di starmene zitta; ma le mie compagne, appena arrivate a casa, contarono alle famiglie quel che era avvenuto. Si sparse la notizia. Un giorno, arrivo in casa e mia madre mi domanda:

- Senti un po'. Dicono che hai visto giù di lì non so che. Si può sapere cos'hai visto?

- Non so. - E siccome non sapevo spiegarmi, aggiunsi - Pareva una persona avvolta in un lenzuolo. - E, volendo dire che non avevo potuto scorgerne i lineamenti, dissi: «Non si riusciva a vedergli né occhi, né mani».

Stupidaggini di bambini - disse mia madre e chiuse il caso con un gesto di disprezzo.

Passò un po' di tempo e noi tornammo con le nostre greggi a quello stesso posto, e si ripeté la stessa cosa, nello stesso modo. Le mie compagne raccontarono di nuovo l'accaduto. E la stessa cosa si ripeté di lì a un po' di tempo.

Era la terza volta che mia madre sentiva parlare di questi avvenimenti da gente dì fuori, senza che io avessi detto una sola parola in casa. Mi chiama allora, già poco soddisfatta e mi domanda:

- Vediamo un po'. Cos'è questa roba che voi vedete giù di li?

- Non so, mamma, non so cos’è.

Parecchi cominciarono a prenderci in giro. E siccome io, dal tempo della mia prima comunione restavo a tratti come assorta, le mie sorelle, ricordando quel che era avvenuto, mi chiedevano con una punta d'ironia: «Stai vedendo qualcuno avvolto in un lenzuolo?».

Questi gesti e parole di commiserazione mi colpivano molto, perché io ero abituata a ricevere solo carezze e attenzioni. Ma questo non era niente. È che io non sapevo quello che il buon Dio mi aveva riservato per il futuro.

È a questo punto che Francesco e Giacinta chiesero e ottennero, come ho già raccontato all'E.V. rev.ma, il permesso dei genitori di cominciare a custodire il loro gregge. Lasciai così queste buone compagne e le sostituii con i miei cugini Francesco e Giacinta.

Ci mettemmo d'accordo, dunque, di pascolare le nostre greggi nei terreni dei miei zii e dei miei genitori, per non stare insieme sui monti con gli altri pastori.

Un bel giorno andammo con le nostre pecorelle nella proprietà dei miei, situata ai piedi del monte di cui ho parlato, dalla parte rivolta verso levante. Questa proprietà si chiama Chousa Velha. Verso metà mattina, cominciò a cadere una pioggerellina fine, poco più che una rugiada. Risalimmo il pendio del monte, seguiti dalle nostre pecorelle, in cerca di una roccia che ci servisse da riparo. Fu allora che per la prima volta entrammo in quella benedetta grotta. Si trova in mezzo a un uliveto e appartiene al mio padrino Anastacio. Da lì si vede il piccolo paesetto dove sono nata, la casa dei miei genitori, i paesini di Casa Velha e Eira da Pedra. L'uliveto ha parecchi proprietari e si estende fino a confondersi con questi piccoli paesetti.

Lì passammo la giornata, anche se aveva smesso di piovere ed era apparso un sole bello e splendente. Facemmo lo spuntino e recitammo il nostro rosario e chissà forse uno di quelli, che noi usavamo dire per la fretta di poter giocare, come ho già raccontato a V.E., passando i grani e dicendo solo le parole: Ave, Maria e Padre nostro! Finito di pregare, cominciammo a giocare con i sassolini.

Si stava giocando da qualche momento ed ecco che un vento forte scuote gli alberi e ci fa alzare gli occhi per vedere cosa succedeva, perché il giorno era sereno. Vediamo allora che sopra l'uliveto viene verso di noi quella figura di cui ho già parlato. Giacinta e Francesco non l'avevano mai vista e io non gliene avevo mai parlato. A mano a mano che si avvicinava, riuscivamo a scorgerne le fattezze: un giovane di 14 o 15 anni, più bianco che se fosse stato di neve, e il sole lo rendeva trasparente come se fosse stato di cristallo e di una grande bellezza. Arrivato vicino a noi ci disse:

- Non abbiate paura. Sono l'angelo della pace. Pregate con me. - E, inginocchiatosi per terra, curvò la fronte fino al suolo e ci fece ripetere tre volte queste parole: - Mio Dio, io credo, adoro, spero e vi amo! Io vi domando perdono per quelli che non credono, non adorano, non sperano e non vi amano.

Poi, alzandosi disse:

- Pregate così. I Cuori di Gesù e di Maria stanno attenti alla voce delle vostre suppliche.

Le sue parole s'impressero talmente nel nostro spirito, che noi non le scordammo mai più. E da allora noi trascorrevamo lunghi periodi di tempo, così prosternati, ripetendole a volte fino a cadere dalla stanchezza. Raccomandai subito che era necessario mantenere il segreto e, questa volta, grazie a Dio, fecero come volevo io.

Passò un bel po' di tempo e un giorno d'estate, che eravamo andati a passare la siesta a casa, stavamo giocando in cima a un pozzo, che i miei avevano in fondo al giardino e che si chiamava Arneiro. (Nello scritto su Giacinta, ho già parlato anche di questo pozzo). Improvvisamente, vediamo vicino a noi la stessa figura, o angelo, come mi pare che doveva essere e dice:

- Che fate? Pregate, pregate molto! I Cuori santissimi di Gesù e di Maria hanno sopra di voi disegni di misericordia. Offrite costantemente all'Altissimo orazioni e sacrifici.

- E come dobbiamo sacrificarci? - domandai.

- Offrite a Dio il sacrificio di tutto quello che vi sarà possibile, in atto di riparazione dei peccati, con cui Lui viene offeso e per impetrare li conversione dei peccatori. Attirate così, sopra la nostra patria, la pace. Io sono il suo angelo custode, l'angelo del Portogallo. Soprattutto accettate e sopportate con sottomissione le sofferenze che il Signore vi manderà.

Passò parecchio tempo e andammo a pascolare il gregge in una proprietà dei miei genitori situata sul pendio del monte di cui ho parlato, un po' sopra Valinhos. È un uliveto chiamato Pregueira. Finito lo spuntino, decidemmo di andare a pregare nella grotta che restava dall'altra parte del monte. Perciò si fece un mezzo giro sul pendio e dovemmo arrampicarci su per alcune rocce, situate proprio in cima alla Pregueira. Le pecore riuscirono a passare con molta difficoltà.

Appena arrivati ci mettemmo in ginocchio con la faccia a terra e cominciammo a ripetere l'orazione dell'angelo: «Mio Dio, io credo, adoro, spero e vi amo ecc.». Non so quante volte avevamo ripetuto questa preghiera, quando vediamo che sopra di noi brilla una luce sconosciuta. Ci alziamo per vedere che cosa stava succedendo e vediamo l'angelo che aveva nella mano sinistra un calice, sopra il quale stava sospesa un'ostia, dalla quale cadevano alcune gocce di sangue dentro al calice. L'angelo lascia sospeso il calice per aria, s'inginocchia vicino a noi e ci fa ripetere tre volte:

- Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito santo, io vi offro il preziosissimo corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo, presente in tutti i tabernacoli della terra, in riparazione di tutti gli oltraggi, sacrilegi e indifferenze, con i quali Egli stesso è offeso. E per i meriti infiniti del suo santissimo Cuore e del Cuore immacolato di Maria, vi domando la conversione dei poveri peccatori.

Poi si alza, prende nelle mani il calice e l'ostia. Dà a me l'ostia santa e il calice lo divise tra Giacinta e Francesco, dicendo nello stesso tempo:

- Prendete e bevete il corpo e il sangue di Gesù Cristo, orribilmente oltraggiato dagli uomini ingrati. Riparate i loro crimini e consolate il vostro Dio.

E, prostrandosi nuovamente in terra, ripeté con noi altre tre volte la medesima orazione: «Santissima Trinità ecc.», e scomparve.

Noi rimanemmo nella stessa posizione, ripetendo sempre le stesse parole e quando ci alzammo, vedemmo che s'era fatto sera e perciò era ora che ce ne andassimo a casa.

Eccomi, Eccellenza reverendissima, arrivata alla fine dei miei tre anni di pastorella, dai sette ai dieci anni. Durante questi tre anni, la nostra casa e oserei quasi dire la nostra parrocchia aveva mutato aspetto quasi completamente. Il rev. P. Pena non era più nostro parroco e era stato sostituito dal rev. P. Boicinha. Questo zelantissimo sacerdote, venuto a conoscenza dei costumi pagani che esistevano nella parrocchia, come balli e danze, cominciò a predicare contro questo dal pulpito nelle omelie domenicali. In pubblico e in privato, approfittava di tutte le occasioni che gli capitavano per combattere queste cattive usanze.

Mia madre, quando senti il buon parroco parlate così, proibì alle mie sorelle di andare a simili divertimenti. E siccome l'esempio delle mie sorelle portò molte altre a non partecipare, quest'usanza andò a poco a poco scomparendo.

Lo stesso avvenne tra i bambini, che come ho già detto a V.E. nella esposizione su mia cugina facevano le loro danze a parte.

Ci fu chi disse a mia madre:

- Ma fin adesso non era peccato ballare! E ora, perché è cambiato il parroco, improvvisamente diventa peccato? Ma che sistemi sono questi?

- Non so - rispose mia madre - una cosa è certa però, che il signor priore non vuole che si balli e perciò le mie figliole non si rimettono con certe compagnie. Al massimo le lascerò ballare un po' in casa, perché il signor priore dice che in famiglia non c'è niente di male.

In questo periodo le mie due sorelle più vecchie lasciarono la casa paterna, perché avevano ricevuto il sacramento del matrimonio.

Mio padre s'era lasciato trascinare da cattive compagnie e era caduto nei lacci di una triste passione, a causa della quale avevamo già perduto alcuni dei nostri terreni. Mia madre, visto che i mezzi di sussistenza scarseggiavano, decise di mandare le mie due sorelle Gloria e Carolina a servizio in altre famiglie.

Rimase dunque in casa mio fratello, per lavorare i campi che ci restavano; mia madre, che si occupava della casa e io per pascolare il gregge.

La mia povera mamma viveva immersa in una profonda amarezza e quando, la sera, stavamo tutti e tre riuniti intorno al focolare, aspettando il babbo per cenare, mia madre, a vedere vuoti i posti delle altre sue figlie, diceva. con una profonda tristezza: «Mio Dio, dov'è andata a finire la felicità di questa famiglia?». E, piegando la testa su un tavolinetto che aveva a fianco, scoppiava in amari pianti. Mio fratello e io univamo le nostre lacrime alle sue. Era una delle scene più tristi a cui io abbia assistito. Sentivo il cuore spezzarsi dal desiderio di rivedere le mie sorelle e per l'amarezza di mia madre. Anche se ero una bimbetta, capivo benissimo la situazione in. cui ci trovavamo.

Mi ricordavo allora delle parole dell'angelo: «Soprattutto accettate, sottomessi, i sacrifici, che il Signore vi manderà». Mi ritiravo allora in un luogo solitario, per non aumentare con la mia sofferenza quella di mia madre. Questo luogo era, di solito, il nostro pozzo. Là, in ginocchio, prostrata sopra i lastroni che lo coprivano, univo alle sue acque le mie lacrime e offrivo a Dio la mia sofferenza. A volte Giacinta e Francesco arrivavano e m'incontravano in questo stato, amareggiata. E siccome la mia voce era interrotta dai singhiozzi e non potevo parlare, essi soffrivano con me al punto di spargere pure loro abbondanti lacrime. Era Giacinta allora che faceva a voce alta la nostra offerta:

- Mio Dio! È in atto di riparazione e per la conversione dei peccatori che Vi offriamo tutte queste sofferenze e sacrifici.

La formula dell'offerta non era sempre esatta, ma il senso era sempre questo.

Queste sofferenze tanto grandi cominciarono a mirate la salute di mia madre. Ormai non poteva più lavorare e fece venite mia sorella Gloria, che stesse dietro ai lavori di casa. Accorsero allora i medici e chirurghi che c’erano da quelle parti. Provò un'infinità di medicine, senza ottenere nessun miglioramento. Il buon parroco si offerse di portare mia madre a Leiria, col suo baroccio tirato da mule, perché potesse consultarvi dei medici. E ci andò, accompagnata da mia sorella Teresa, ma ritornò a casa mezza morta per la stanchezza e sfinita dalle visite, senza aver ottenuto alcun risultato.

Si consultò infine con un chirurgo che lavorata a S. Mamede, il quale dichiarò che mia madre soffriva di una lesione cardiaca, lo spostamento di una vertebra e un abbassamento renale. La sottomise ad una rigorosa cura di punte infocate e varie medicazioni, con cui ottenne qualche miglioramento.

Ecco lo stato in cui ci trovavamo, quando arrivò il 13 maggio 1917. Mio fratello raggiungeva pure in quel periodo l'età di presentarsi per il servizio militare. E siccome godeva di una salute perfetta, c'era da aspettarsi che risultasse idoneo. Inoltre era tempo di guerra e era difficile farlo esentare.

Col timore di restare senza nessuno che s'occupasse dei campi, mia madre richiamò a casa anche la mia sorella Carolina. Frattanto il padrino di mio fratello prometteva di farlo esentare. Fece dei passi presso il medico Ispettore e il nostro buon Dio si degnò, per allora di dare a mia madre questa consolazione.

Non sto qui a descrivere l'apparizione del 13 maggio. V.E. la conosce bene e perciò il tempo impiegato a descriverla sarebbe tempo perso.

V.E. conosce bene anche il modo con cui mia madre si informò del fatto e gli sforzi che fece per obbligarmi a dire che 'avevo mentito.

Le parole che la santissima Vergine mi disse in quel giorno e che decidemmo d'accordo di non rivelare, furono (dopo aver detto che saremmo andati in cielo, chiese):

- Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze, che Lui vorrà inviarvi, in riparazione dei peccati con cui Egli è offeso e per impetrare la conversione dei peccatori?

- Sì, noi lo vogliamo - fu la nostra risposta.

- Avrete dunque molto da soffrire, ma la grazia di Dio sarà il vostro conforto.

Il 13 di giugno si celebrava nella nostra parrocchia la festa in onore dl sant'Antonio. Quel giorno era tradizione dar la via alle greggi al mattino per tempo; e alle nove si chiudevano negli stabbi per andare alla festa. Mia madre e mia sorella che sapevano quanto io amassi le feste, mi dicevano di solito: «Voglio proprio vedere se lasci la festa per andare a Cova da Iria a parlare con quella Signora». Quel giorno nessuno mi rivolse la parola, però mi guardavano con l'aria di chi pensa: «Lascia perdere; stiamo a vedere cosa fa'».

Così detti la via al gregge al mattino presto, con l'intenzione di chiuderlo nello stabbio alle nove, andate alla messa delle dieci e poi andare a Cova da Iria. Ma ecco che poco dopo il sorgere del sole, mio fratello mi viene a chiamare: che dovevo andare a casa, che c'erano varie persone che volevano parlarmi. E restò lui col gregge e io andai a vedere che cosa volevano. - Erano uomini e donne che venivano dai paesi di Minde, dalle parti di Tomar, Carrascos, Boleiros, ecc., e che volevano accompagnarmi a Cova da Iria. Io dissi loro che era ancora presto e li invitai ad andare con me alla messa delle otto. Dopo tornai a casa. Questa buona gente mi aspettò nel nostro cortile, all'ombra dei nostri fichi. Mia madre e mia sorella mantennero il loro atteggiamento di commiserazione, che in realtà mi feriva e mi costava più degli insulti.

Verso le 11, uscii di casa, passai dalla casa dei miei zii, dove Giacinta e Francesco mi aspettavano e ce ne andiamo a Cova da Iria, in attesa del momento desiderato. Tutta la gente ci seguiva, facendoci mille domande. In questo giorno, io mi sentivo molto amareggiata: vedevo mia madre afflitta, che voleva a tutti i costi farmi confessare - come mi diceva - la mia menzogna. Io avrei voluto farla contenta, ma non sapevo ormai come, senza mentire. Ella aveva infuso nei suoi figli, fin dalla culla, un grande orrore per la menzogna e castigava severamente chi ne dicesse qualcuna.

- Sono sempre riuscita - diceva - a far sì che i miei figli dicessero la verità; e ora dovrei passar sopra a una cosa del genere con la più piccola? Magari se si trattasse di una cosa meno importante...; ma una menzogna simile che ha già tratto in inganno tante persone!

Dopo questi sfoghi, si rivolgeva a me e diceva:

- Rigirala un po' come ti pare! O tu la finisci d'imbrogliare questa gente, confessando che hai mentito, o ti rinchiudo in una stanza dove non puoi più vedere nemmeno la luce del sole. A tanti altri dispiaceri, mi mancava proprio che venisse ad aggiungersi una cosa simile.

Le mie sorelle prendevano le parti di mia madre e intorno a me si respirava un'atmosfera di disprezzo e di rifiuto. Mi ricordavo allora dei tempi

passati e domandavo a me stessa: «Dov'è la tenerezza, che fino a poco tempo fa la mia famiglia aveva per me?». Mio unico sfogo erano le lacrime, sparse davanti a Dio, mentre gli offrivo il mio sacrificio.

Quel giorno dunque la SS. Vergine, come se indovinasse quel che stava succedendo, oltre a quello che ho già narrato, mi disse:

- E tu soffri molto? Non scoraggiarti! Io mai ti lascerò; Il mio Cuore immacolato sarà il tuo rifugio e il cammino che ti condurrà a Dio.

Giacinta, quando mi vedeva piangere, mi consolava dicendo:

- Non piangere! Di sicuro sono questi i sacrifici che l'angelo ha detto che Dio ci avrebbe inviato. Perciò è per riparare e per convertire i peccatori che tu soffri.

Fu in questo periodo che il parroco della mia parrocchia venne a conoscenza di quel che avveniva e mandò a dire a mia madre di portarmi a casa sua. Lei si sentì sollevata, stimando che il signor priore si sarebbe assunto la responsabilità degli avvenimenti. Per questo mi disse:

- Domattina andiamo a messa di buon'ora. Poi tu vai dal signor priore. Egli ti obbligherà a dire la verità, comunque sia: che ti castighi, che faccia dite quello che gli pare; basta che ti obblighi a confessare che hai mentito, io sono contenta».

Le sorelle presero anche loro le parti di mia madre e inventarono una infinità di minacce per impaurirmi al pensiero dell'incontro col parroco. Informai Giacinta e Francesco su quello che stava avvenendo ed essi mi risposero:

- Veniamo anche noi. Il signor priore ha mandato a dire a mia madre di portarci là, ma mia madre non ci ha detto niente di tutte queste cose. Pazienza. Se ci picchiano, soffriremo per amore di nostro Signore e per i peccatori.

Il giorno dopo me ne andai dietro a mia madre, che per la strada non mi disse nemmeno una parola. Io confesso che tremavo, al pensiero di quello che doveva succedere. Durante la messa, offersi a Dio le mie sofferenze; dopo, dietro a mia madre, attraverso il sagrato e salgo le scale della veranda del parroco. Saliti i primi gradini, mia madre si gira verso di me e mi dice:

- Non mi dar più grattacapi! Ora tu dici al signor priore che hai mentito e così lui, domenica, può avvisare in chiesa che è stata una menzogna e tutto finisce lì. Ma ti pare una cosa da farsi, tutta questa gente che corre a Cova da Iria a pregare davanti a un leccio!

Senza dire altro, bussa alla porta. Viene ad aprire la sorella del parroco, che ci fa sedere su una panca e ci dice di aspettare un poco. E infine venne il signor priore. Ci fa entrare nel suo studio, fa segno a mia madre di sedersi su una panca e mi chiama vicino alla scrivania. Quando vidi che il reverendo parroco m'interrogava con tanta serenità e perfino con amabilità, rimasi meravigliata. Però mi tenevo nell'attesa di quello che sarebbe avvenuto dopo.

L'interrogatorio fu molto minuzioso e quasi quasi oserei dite spossante. Il reverendo mi fece un leggero ammonimento dicendo:

- Non mi sembra una rivelazione del cielo. Quando succedono queste cose, nostro Signore invia ordinariamente queste anime, con cui si mette in comunicazione, a render conto di quello che avviene ai loro confessori o parroci; e questa qui, al contrario, si chiude in sé più che può. Anche questo può essere un inganno del demonio. Vedremo. Il futuro ci dirà che cosa dobbiamo pensarne.

Quanto mi abbia fatto soffrire questa osservazione, solo nostro Signore lo può sapere, perché Lui solo può penetrare nel nostro intimo.

Cominciai allora a dubitare se queste manifestazioni venissero dal demonio, che cercava in questo modo di perdermi. E siccome avevo sentito dire che il demonio porta sempre guerra e disordine, cominciai a pensare che, di fatto, da quando io vedevo queste cose, non c'erano più state né allegria né tranquillità in casa nostra. Che angoscia provavo. Manifestai il mio dubbio ai miei cugini. Giacinta rispose:

- Ma no, non è il demonio! Il demonio dicono che è molto brutto, che sta sotto terra, all'inferno; quella Signora è così bella e noi l'abbiamo vista salire al cielo!

Nostro Signore si servì di questo per far svanire un po' il mio dubbio. Ma nel corso del mese perdetti l'entusiasmo per la pratica del sacrificio e della mortificazione. Non sapevo se avrei finito per dire che avevo mentito e così farla finita con tutto. Giacinta e Francesco mi dissero:

- Non far così! Non capisci che adesso sì che dici una bugia e dire le bugie è peccato!

Mi trovavo in questo stato, quando ebbi un sogno che aumentò le tenebre del mio spirito: vidi il demonio che mi aveva ingannata, ridacchiava e faceva sforzi per trascinarmi all'inferno. Al vedermi tra le sue sgrinfie, cominciai a gridare così forte, invocando la Madonna, che svegliai mia madre, la quale mi chiamò, preoccupata, e mi domandò cosa avevo. Non mi ricordo che cosa le risposi. Ricordo però che quella notte non potei più dormire, perché ero paralizzata dalla paura.

Questo sogno lasciò nel mio spirito una vera nube di paura e di afflizione. Mio unico sollievo era starmene tutta sola, in un canto solitario e lì piangere a volontà. Cominciò a infastidirmi perfino la compagnia dei miei cugini e perciò cominciai a nascondermi anche da loro. Poveri bambini. A volte andavano in giro a cercarmi, chiamandomi per nome, e io ero li vicino, senza rispondergli, nascosta a volte in un cantuccio, verso cui non si sognavano nemmeno di guardare.

Si avvicinava intanto il tredici luglio e io non sapevo se ci sarei andata. Pensavo: «Se è il demonio, perché dovrei vederlo? Se mi dicono perché non ci vado, dico che ho paura che sia il demonio che ci appare e che perciò non ci vado. Giacinta e Francesco facciano come gli pare. Io non ci torno più a Cova de Iria. La mia decisione era presa e io ero decisa a metterla in pratica.

Il dodici, nel pomeriggio, cominciò a radunarsi della gente, che veniva per assistere agli avvenimenti del giorno seguente. Chiamai allora Giacinta e Francesco e li informai della mia decisione. Essi risposero: «Noi ci andiamo. Quella Signora ci ha detto di andarci. Giacinta si offerse a parlare lei con la Signora, ma le dispiaceva che io non ci andassi e cominciò a piangere. Le domandai perché piangeva:

- Perché tu non vuoi venire!

- No, io non ci vado; Senti: se la Signora ti domanda di me, dille che non vengo, perché ho paura che sia il demonio. - E li piantai lì e andai a nascondermi, così non avevo da parlare con le persone che mi cercavano per interrogarmi.

Mia madre pensava che stessi giocando con i bambini del posto, durante tutti questi periodi che passavo nascosta dietro un cespuglio, che c'era nella proprietà di un vicino, che confinava col nostro Ameiro, un po' a est del pozzo già tante volte ricordato. Quando arrivavo in casa, la sera, mi rimproverava dicendo:

- Questa sì che è una santerella di legno tarlato! Tutto il tempo che le avanza che non va colle pecore, sta a giocare in modo tale che nessuno la trova.

Il giorno dopo, mentre si avvicinava l'ora in cui dovevo partire, mi sentivo spinta ad andare da una forza misteriosa, alla quale non mi era facile resistere. Mi misi dunque in cammino e passai dalla casa dei miei zii, per vedere se c'era ancora Giacinta. La trovai in camera, col suo fratellino Francesco, in ginocchio vicino al letto, piangendo.

- Allora, voi non andate? - domandai loro.

- Senza te non abbiamo il coraggio di andare. Dai, vieni!

- Son qui che vado, - risposi.

Allora, subito rasserenati, patirono con me.

La folla ci aspettava in grossi gruppi lungo le strade e a malapena riuscimmo ad arrivare. Fu questo il giorno in cui la SS. Vergine si degnò di rivelarci il segreto. Poi, per rianimare il mio fervore intiepidito, ci disse:

- Sacrificatevi per i peccatori o dite a Gesù, molte volte, ma specialmente tutte le volte che offrite un sacrificio: «O Gesù, è per amor vostro e per la conversione dei peccatori e in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore immacolato di Maria».

Grazie al nostro buon Dio, con questa apparizione scomparvero le nubi dall'anima mia e ritrovai la pace.

La mia povera mamma era sempre più preoccupata a vedere il gran numero di gente che veniva lì da tutte le parti.

- Questi poveretti - diceva - arrivano qua, sicuramente perché sono tratti in inganno dai vostri imbrogli; e davvero non so che fare per disingannarli.

Un poveraccio, che si vantava di prenderci in giro, di insultarci e di arrivare

volte a metterci le mani addosso, un giorno le domandò:

- Allora, zia Maria Rosa, che cosa mi dite delle visioni di vostra figlia?

- Ma che ne so - rispose mia madre - Mi pare che non è altro che un'imbrogliona, che sta ingannando mezzo mondo.

- Non ditelo molto forte, se non qualcuno è capace di ammazzarvela. Ho l'impressione che c'è qualcuno in giro che ne ha proprio voglia.

- Ah, non m'importa. Basta che la costringano a confessare la verità. Io però dirò sempre la verità, sia contro i miei figli, sia contro chi vi pare, magari anche contro di me.

Era proprio così. Mia madre diceva sempre la verità, anche se era contro se stessa. Noi suoi figli le siamo debitori di questo buon esempio.

Così un giorno tentò di nuovo di obbligarmi a smentirmi, come lei diceva. Perciò decise di portarmi un'altra volta, il giorno seguente, alla casa del signor priore, perché io confessassi di aver mentito, per chiedergli perdono e per fare la penitenza che il reverendo credesse opportuno e volesse impormi. Questa volta l'attacco era forte e io non sapevo come fare. Lungo il cammino, passo dalla cara dei miei zii, dico a Giacinta, che era ancora a letto, quel che stava avvenendo e poi me ne vado dietro a mia madre.

Nello scritto su Giacinta, ho già detto all'E.V. rev.ma la parte che lei e il fratello ebbero in questa prova che il Signore ci inviò e come mi aspettavano vicino al pozzo ecc.

Durante il cammino, 'mia madre mi fece la sua solita predica. A un certo punto io le dissi tremando:

- Ma, mamma, come faccio a dire che non ho visto, se ho visto?

Mia madre non rispose e, arrivata vicino alla casa del parroco, mi disse: - Ascoltami bene! Quello che io voglio è che tu dica la verità: se hai visto, di' che hai visto; se non hai visto, confessa che hai mentito. - E senza aggiungere altro, salimmo la scalinata e il buon parroco ci ricevette nel suo studio con grande amabilità e, direi, perfino con dolcezza.

M'interrogò con grande serietà e delicatezza, servendosi di alcuni trucchi, per vedere se io mi contraddicevo o se scambiavo una cosa per l'altra. Alla fine ci licenziò stringendosi nelle spalle, come a dire: «Non so che cosa dire né che cosa fare di questa faccenda».

Passati alcuni giorni, i miei zii e i miei genitori ricevettero l'ordine delle autorità di comparire in municipio, il giorno seguente, a una certa ora stabilita, con Giacinta, Francesco, mio zio, con me e mio padre. Il municipio si trova a Vila Nova de Ourém; perciò c'era da camminare tre leghe circa, distanza assai considerevole per tre bambini della nostra età. E in quel tempo, l'unico mezzo per viaggiare in quei posti, erano le gambe e qualche somarello. Mio zio disse subito che lui andava, ma i suoi figli non li portava:

Loro, a piedi non ce la fanno; - diceva - e a cavallo non sono buoni a tenersi all'asina, perché non ci sono abituati. E poi non mi sento il dovere di presentare in tribunale due bambini così piccoli.

I miei genitori erano di parere contrario.

- La mia ci va. Che s'arrangi a rispondere. Io di queste cose non me ne intendo niente. Se sta mentendo, le sta bene se viene castigata.

Il giorno dopo, molto per tempo, mi misero in cima ad un'asina, dalla quale caddi tre volte durante il cammino e me ne andai accompagnata da mio padre e da mio zio. Mi pare che ho già raccontato a V.E. rev.ma quel che Giacinta e Francesco ebbero a soffrire quel giorno, credendo che m'avrebbero uccisa. Per me, quel che più mi faceva soffrire, era l'indifferenza dei miei genitori, che m'appariva ancor più chiaramente, quando vedevo la dolcezza con cui. i miei zii trattavano i loro figlioletti. Mi ricordo d'aver fatto durante questo viaggio questa riflessione: «Come sono differenti i miei genitori d'ai miei zii. Questi per difendere i loro figli, si fanno avanti al loro posto; i miei genitori mi abbandonano con la più grande indifferenza, perché facciano di me quello che vogliono. Ma, pazienza - dicevo nell'intimo del mio cuore - così ho la fortuna di soffrire di più per amore Tuo, o mio Dio, e per la conversione dei peccatori». A questo pensiero trovavo conforto in tutti i momenti.

In municipio fui interrogata dal sindaco in presenza di mio padre, mio zio e altri signori che non so chi erano. Il sindaco voleva per forza che gli rivelassi il segreto e che gli promettessi di non tornare mai più a Cova da Iria. Per ottenere ciò non risparmiò promesse e, infine, minacce. Vedendo che non otteneva nulla mi lasciò andare, giurando che ci sarebbe riuscito, anche se per far ciò avesse dovuto togliermi la vita. A mio zio diede una solenne ripassata, perché non aveva ubbidito ai suoi ordini e poi ci lasciarono tornare a casa nostra.

Avevamo in famiglia anche un altro dispiacere, di cui - come si diceva - io ero la causa. Cova da Iria era un terreno di proprietà dei miei genitori. In fondo c'era un campetto assai fertile, in cui si coltivava un bel po' di mais, legumi, ortaggi, ecc. Sui poggi c'erano ulivi, lecci e qualche quercia. Ma dopo che il popolo aveva cominciato ad andarci, non potemmo più coltivarci niente. La gente calpestava tutto. Un gran numero andava a cavallo e gli animali finivano per mangiare e rovinare tutto. A mia madre dispiaceva questa perdita e diceva:

- Tu, ora, quando vuoi mangiare, va' a chiederlo a quella Signora!

Tu, ora, dovresti mangiare solo quello che si coltiva a Cova da Iria! - aggiungevano le sorelle.

Queste cose mi costavano tanto, che io non avevo il coraggio di prendere un pezzo di pane per mangiare. Mia madre, per obbligarmi a dire la verità

- come lei diceva - arrivò non poche volte al punto di farmi sentite il peso di qualche manganello destinato al fuoco e trovato nel mucchio della legna all'angolo, o del manico della scopa. Ma siccome era anche madre, cercava poi di farmi ricuperare le forze perdute e si preoccupava a vedermi smagrire, con una faccia ingiallita e aveva paura che mi ammalassi. Povera mamma! Ora si, capisco sul serio la situazione in cui si trovava e come sento compassione per lei! Aveva proprio ragione a stimarmi indegna di un tal favore e a pensare per questo che fossi una bugiarda.

Per una speciale grazia di nostro Signore, mai ho avuto il minimo pensiero o gesto contrario al suo modo di procedere nei miei riguardi. Siccome l'angelo mi aveva annunciato che Dio mi avrebbe mandato delle sofferenze, io vidi sempre in tutto ciò Dio che voleva così. L'amore, la stima e il rispetto che le dovevo andarono sempre crescendo, come se fossi trattata con tenerezza e ora le sono più riconoscente per avermi trattata così, che se avesse continuato a farmi crescere nella bambagia.

Dev'essere stato in quel mese che venne per la prima volta il sig. dott. Don Formigao a farmi una serie di domande. M'interrogò seriamente e minuziosamente. Mi piacque molto, perché mi parlò molto della pratica della virtù, insegnandomi alcuni metodi di praticarla. Mi mostrò un'immagine di sant'Agnese, mi raccontò la storia del suo martirio e m'incoraggiò a imitarla. Il reverendo continuò a venire là tutti i mesi, per fare il suo interrogatorio, finito il quale mi dava sempre qualche buon consiglio, e con questo mi faceva un po' di bene spirituale.

Un giorno mi disse: «Figlia mia, tu hai il dovere di amare molto nostro Signore, per le grazie così grandi e i benefici che ti sta concedendo». Questa frase s'impresse così profondamente nell'anima mia, che da allora ho preso l'abitudine di dire costantemente a nostro Signore: «Mio Dio, io Vi amo in segno di riconoscenza per le grazie che mi avete concesso!». Dissi a Giacinta e al suo fratellino questa giaculatoria che mi piaceva tanto e lei la prese tanto a cuore, che nel bel mezzo del gioco più interessante, domandava: «Vi siete ricordati di dire a nostro Signore che lo amate, per le grazie che ci ha fatto?».

Intanto siamo arrivati al tredici agosto. Fin dalla sera precedente, la gente aveva cominciato ad affluite da tutti i posti. Tutti volevano vederci, interrogarci, farci delle richieste da trasmettere alla santissima Vergine. Eravamo nelle mani di quella gente, come una palla in mano ai ragazzi. Ognuno ci tirava dalla sua parte e ci domandava quel che voleva lui, senza darci tempo di rispondere a nessuno. In mezzo a questa confusione, vengo a sapere di un ordine del sindaco di recarmi alla casa di mia zia, perché la mi attendeva. Mio padre era stato intimato e mi ci portò. Quando arrivai, lui stava in una stanza insieme ai miei cugini. C'interrogò e fece altri tentativi per obbligarci a rivelare il segreto e a promettere che non saremmo tornati a Cova da Iria. Ma non ottenne nulla, perciò diede ordine a mio padre e a mio zio di portarci alla casa del signor Priore.

Tutto il resto che avvenne in questa prigionia, non sto qui a raccontarlo ora, perché V.E. è già al corrente di tutto. Come ho già detto a V.E., la cosa che a questo punto sentii di più, quello che più mi fece soffrire, come pure i miei cugini, fu di essere completamente abbandonati dalle nostre famiglie.

Al ritorno da questo viaggio, o prigionia, dato che non saprei bene come chiamarlo, che secondo me avvenne il 15 agosto, in segno di gioia per il mio arrivo a casa, mi fecero immediatamente dar la via al gregge e portarlo al pascolo. I miei zii rimasero con i loro figlioletti in casa e perciò mandarono al loro posto Giovanni. Era tardi, ormai, e ce ne restammo vicino al paese, a Valinhos.

La V.E. rev.ma sa già come avvenne anche questo fatto e perciò non mi dilungo a descriverlo. La santissima Vergine ci raccomandò di nuovo la pratica della mortificazione, dicendo alla fine di tutto:

- Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori, perché molte anime vanno all'inferno, perché non c'è chi si sacrifica e prega per loro.

Passati alcuni giorni, stavamo andando con le nostre pecorelle per una strada in cui trovai un pezzo di corda di un carretto. La presi e la legai a un braccio, così per gioco. Non tardai ad accorgermi che la corda faceva male. Allora dissi ai miei cugini: «Sentite, questa qui, fa male. Potremmo legarla ai fianchi e offrire a Dio questo sacrificio». I poveri bambini accettarono prontamente la mia idea e subito dopo cercammo di dividerla tra noi tre. Una pietra angolosa, picchiata in cima ad un'altra, fu il nostro coltello. Sia perché era grossolana e dura, sia perché a volte la stringevano troppo, questo strumento ci faceva a volte soffrire orribilmente. Giacinta lasciava a volte cadere alcune lacrime, tanto era forte il dolore che le causava; e io le dicevo alcune volte di toglierla, ma lei rispondeva:

- No, voglio offrire questo sacrificio a nostro Signore come riparazione e per la conversione dei peccatori.

Un'altro giorno stavamo giocando e si coglieva sui muri un'erba con cui si fanno come degli schiocchi e stringerla tra le mani. Giacinta, mentre prendeva quest'erba, colse, senza volere, delle ortiche, con cui si punse. Sentendo dolore, le strinse ancor più nelle mani e ci disse: «Guardate un po'! Ecco un'altra cosa con cui ci possiamo mortificare». Da allora ci rimase l'abitudine di darci - ogni tanto - qualche orticata alle gambe, per offrire a Dio anche quel sacrificio.

Se non m'inganno, fu pure durante questo mese che prendemmo l'abitudine di dare il nostro spuntino ai nostri poverelli, come già ho raccontato aIl'E.V. rev.ma nello scritto sopra Giacinta. Mia madre cominciò pure neI corso di questo mese a stare più in pace. Usava dire: «Se ci fosse, magari solo un'altra persona in più che vedesse qualcosa, io forse ci crederei! Ma che, fra tanta gente, che siano i soli a vedere!». Inoltre, in quest'ultimo mese, parecchie persone dissero d'aver visto varie cose: alcune che avevano visto la Madonna, altre vari segni nel sole, ecc. ecc. Mia madre diceva ora:

- A me, prima, pareva che se c'era un'altra persona che avesse anche lei le visioni, io ci avrei creduto; ma ora che tanti dicono d'aver visto, io non riesco ancora a crederci.

Fu pure in quel tempo che mio padre cominciò a prendere le mie difese, mettendo sempre a tacere quelli che volevano rimproverarmi; e usava dire:

- Non sappiamo se è vero, ma non sappiamo nemmeno se è una menzogna.