IL CASO/ 2. Divorzio all’inglese: chi “rompe” fa felice lo Stato

- Paola Liberace

La tassa sui divorzi proposta dal governo inglese, spiega PAOLA LIBERACE, è profondamente liberale e porterebbe benefici

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Che la proposta di una “tassa sui divorzi” in Gran Bretagna sia stata avanzata da un governo conservatore – e osteggiata dall’opposizione laburista – potrebbe prestarsi a facili ironie e generalizzazioni.

Meno evidente è lo spirito profondamente liberale di un simile provvedimento, che oltre a tutelare l’interesse dei figli nati da matrimoni in bilico sortisce un effetto positivo anche sulle finanze pubbliche, alleggerite di costi indebiti. Si tende, infatti, a dimenticare l’impatto negativo che la rottura dell’unione matrimoniale sortisce non solo sul portafoglio dei privati ma anche sulle casse statali, gravate da quel momento in poi di costi che pesano sul welfare.

L’intento dichiarato del governo di Cameron è in effetti quello di finanziare la Child Manteinance and Enforcement Commission, il sistema che prende in carico le sorti dei figli dei divorziati. Più in generale, separazioni e divorzi costano allo Stato più delle unioni felici, e non solo in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, secondo un rapporto pubblicato nel 2008, ogni anno vengono generati costi per circa 112 miliardi di dollari, come conseguenza diretta o indiretta della rottura dei matrimoni: tra le quali l’incremento di programmi di sostegno all’educazione e di contrasto all’impoverimento che affligge i genitori divorziati, e il minor gettito fiscale che deriva dal minore reddito dei contribuenti coinvolti.

Nel nostro paese i coniugi che divorziano si trovano ad affrontare parcelle legali che possono raggiungere i 10.000 euro, e a dover corrispondere ai familiari assegni di mantenimento che vanno dai 300 ai quasi 600 euro; senza contare gli impatti della riduzione del reddito derivante dalla separazione, che finiscono – specialmente in tempi di crisi – per avvicinare pericolosamente i coniugi separati alla soglia di povertà.

A queste spese private fanno riscontro gli oneri a carico dei contribuenti: secondo un’indagine condotta dall’Eurispes e presentata nel 2009, lo Stato negli anni tra il 2006 e il 2007 ha affrontato per procedimenti di separazione, divorzio e volontaria giurisdizione, sia consensuali che giudiziali, un costo complessivo di circa 440 milioni di euro, che rappresenta più del 16% del budget della giustizia civile.

 

Nell’anno 2006, circa trentamila sono stati i minori coinvolti dalla separazione dei genitori: il sostegno dei minori in stato di bisogno affidati a un genitore separato rientra tra gli obiettivi perseguiti dal Fondo Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, istituito con la legge 285 del ’97 promossa da Livia Turco: anche in questo caso si tratta di costi che incidono sul bilancio dello Stato, trattandosi di misure afferenti al welfare nazionale.

 

L’idea che a tutto questo si possa porre rimedio trasportando i costi impliciti su un piano esplicito, e attribuendoli ai soli interessati invece che a tutta la popolazione, può sembrare semplicistica. Semplice è invece l’assunzione che sta alla sua base, nella migliore tradizione del liberalismo britannico: la rottura di un legame personale e sociale come quello del matrimonio è un evento doloroso, ma non inevitabile; e lo Stato non è tenuto a farsene carico, se può evitarlo.  







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