Con calma, con una certa angoscia però, abbandono il campo di battaglia della politica dei leader e dei rapinosi assalti di magistrati e mass media alla Lombardia e ai Palazzi, e mi dirigo verso le steppe della nostra vita quotidiana. Parlo di divorzio. E di bambini. Il caso più famoso e ormai dimenticato (tranne che dal piccolo) è quello di Padova. Accadde un paio di settimane fa, anzi un secolo addietro, che Alfonsino (lo chiamo così) sia stato portato via ai suoi affetti e infilato con la rudezza del rapimento in una casa di accoglienza (la mia grande amica Alessandra Mussolini dice che è il regno dello squallore senza amore). Il torto è apparso subito essere della polizia, indotta da un ordine del giudice a tradurre il piccolo dalla scuola elementare in un luogo neutro. Infatti la mamma (e la zia e i nonni) non volevano che vedesse il papà. Il papà desiderava essere un po’ padre anche lui, ma gli era stato vietato. Salomone dei nostri giorni non taglia più il bambino a metà. Ma lo conduce in territori senza “ricatti affettivi”.
Alfonsino ha scritto, o l’ha detto, non so bene: «Se si parlassero, le cose andrebbero bene». Voleva dire: se si volessero ancora bene, se fossimo una famiglia saremmo contenti. Ma perché è impossibile? Io credo che tutto questo sia dovuto alla tranquilla accettazione universale del valore supremo: il diritto individuale alla felicità è prima di tutto. Il diritto individuale! Ci si innamora, si prende un impegno, si mette al mondo un figlio. Ma la brace si spegne, diventa cenere e intossica. Appare un’altra donna, un altro uomo: via col vento. Per decenni nei programmi tv leggeri e in quelli pensosi tipo Maurizio Costanzo Show si è affermata l’idea che si vive una volta sola, che se il sentimento scoppia e ti conduce da un’altra parte, devi seguirlo. I bambini soffrono? Diventando grandi capiranno. E la legge deve sancire questo diritto: il divorzio diventa un diritto. Il diritto di rinascere in cambio della lacerazione degli altri. D’accordo? Dai, ce la siamo bevuta tutti questa idea.
Il risultato è la storia di Padova. La radice però di questa character assassination di Alfonsino sta nell’ideologia dell’egoismo per cui è immorale il sacrificio. L’accettare di tenere insieme la famiglia, rinunciando alle fragole, all’erba fresca e ai ruscelli, ma percorrendo con dolore la valle spinosa della quotidianità per rispettare un impegno preso; la fatica di far prevalere l’amore al bambino e la compassione profonda per l’altro che si fa fatica a sopportare trascinati da bagliori lontani. Qui non invoco la tradizione ammuffita, ma la serietà della vita degli uomini, che hanno un compito, e sono disposti a morire per un bene più grande, che ha la faccia di un bambino. Se mi capisce anche il dieci per cento, basta così, è tanto, e sono contento.
Ora in Parlamento si va verso una legge per il divorzio breve. Sembra puro buon senso dinanzi allo sfacelo e alla durata dei matrimoni. Ma che roba è? Davvero dobbiamo rinunciare alla speranza e al grido della natura che ci fa dire che l’amore è per sempre? Porre le premesse di una via d’uscita è la negazione di ogni certezza, di ogni vincolo capace di essere più durevole del baluginio dei sentimenti. Secondo me questa è la politica. Cercare di dare forma sociale a un ideale. Il divorzio breve anzi brevissimo trionferà a colpi di maggioranza? Va bene. Okkei (con due kappa). Vero Boris?