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REDEMPTORIS CUSTOS/6

San Giuseppe e la buona morte (quella vera)

Con la secolarizzazione si è perso il senso cristiano della morte, in favore di una concezione materialista che vede nel trapasso la fine di tutto e inganna con l’eutanasia. San Giuseppe, patrono della buona morte perché spirato tra Gesù e Maria, ci ricorda invece la necessità di vivere e morire in grazia di Dio, dandoci un insegnamento attualissimo in tempo di Covid.

Ecclesia 19_05_2021 English Español

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». (Mt 25,13)

In linea con le Sacre Scritture, la Chiesa ricorda la necessità di prepararsi alla morte e arrivarci in grazia di Dio. Uno dei maggiori inganni del demonio, come avverte tra gli altri sant’Alfonso Maria de’ Liguori, è quello di farci rimandare l’attuazione del proposito di confessare i nostri peccati e di liberarci da una condotta di vita che offende il Creatore. Questo e altri inganni sono particolarmente pericolosi nella società contemporanea, che con la secolarizzazione ha perso di vista i fondamenti della fede e, quindi, anche il senso cristiano della morte.

Oggi è in voga un diffuso materialismo che considera il trapasso come fine di tutto e mera liberazione dalle sofferenze, di cui non si coglie il valore redentivo (che nasce dall’unirle a quelle di Gesù). La confusione diabolica si è estesa pure sul piano linguistico, con le varie campagne invocanti leggi sull’eutanasia, letteralmente «buona morte», che, lungi dall’essere una liberazione, è un peccato grave contro il Quinto Comandamento.

Trasmettere allora il vero significato della morte (entrata nel mondo a causa del peccato e vinta da Gesù) è indispensabile per una nuova evangelizzazione. E anche per questo fine ci viene in soccorso san Giuseppe, che è il patrono della buona morte, quella autentica, poiché apre, prima o poi, le porte del Regno dei Cieli. Perciò, nel 1920, Benedetto XV pubblicava il motu proprio Bonum Sane, in cui esortava i fedeli a fronteggiare i tempi «burrascosi» per la cristianità, accrescendo la devozione verso il capo della Sacra Famiglia, perché «attraverso Giuseppe noi andiamo direttamente a Maria, e, attraverso Maria, all’origine di ogni santità, Gesù […]».

Incoraggiando tutte le pie pratiche in onore di san Giuseppe, Benedetto XV ne raccomandava in particolare una: «Poiché Egli è meritamente ritenuto come il più efficace protettore dei moribondi, essendo spirato con l’assistenza di Gesù e di Maria, sarà cura dei sacri Pastori di inculcare e favorire con tutto il prestigio della loro autorità quei pii sodalizi che sono stati istituiti per supplicare Giuseppe a favore dei moribondi, come quelli “della Buona Morte”, del “Transito di San Giuseppe” e “per gli Agonizzanti”».

Anche in virtù di questo speciale patrocinio sui morenti, san Giuseppe è invocato quale «Terrore dei demoni». L’invocazione del suo nome, per i meriti che ha acquistato presso Dio, è un potentissimo aiuto per vincere gli assalti delle forze infernali nella definitiva battaglia che l’anima affronta nel momento della morte. E la meditazione sul suo transito, in mezzo a Gesù e Maria, è stata frutto di grazie per i fedeli di ogni tempo.

I santi, non a caso, sono stati i primi a favorire le confraternite dedicate al patrono dei moribondi. Tra loro, il beato Bartolo Longo, che costituì la “Pia unione degli agonizzanti sotto il patrocinio di san Giuseppe” (a cui si iscrisse per primo Leone XIII) e si adoperò per ottenere dalla Santa Sede l’istituzione di una festa liturgica dedicata al Transito, da celebrarsi il 20 luglio. Santa Teresa d’Ávila testimoniava la serenità interiore nell’ultima agonia delle suore devote a san Giuseppe: «Ho osservato che nel momento di rendere l’ultimo respiro esse godevano ineffabile pace e tranquillità; la loro morte era simile al dolce riposo dell’orazione. Nulla indicava che il loro interno fosse agitato da tentazioni. Quei lumi divini liberarono il mio cuore dal timore della morte. Morire mi pare adesso la cosa più facile per un’anima fedele».

Di qui risulta chiaro che recuperare il senso della morte, insieme all’esercizio delle tre virtù teologali (fede, speranza, carità), ci aiuta a vivere già in terra la libertà dei figli di Dio. Infatti, la società odierna rifiuta spesso di affrontare il discorso sulla fine della vita terrena perché non sa più guardare all’eternità. Anche la paura che ha investito il mondo al tempo del Covid, accresciuta oltre ogni ragionevolezza da un sistema politico-mediatico non orientato a Dio (e che sfrutta la paura come mezzo di controllo), si spiega in buona parte con l’incapacità di sollevare lo sguardo verso il Padre celeste. E a ciò si lega il digiuno di verità sulle cose ultime: Morte, Giudizio (particolare e universale), Inferno, Paradiso. Insegnare che grazie a Gesù Crocifisso e Risorto la morte è stata vinta - ed è stata offerta, a chi accoglie la sua Misericordia, la salvezza eterna - ribalta totalmente il modo di vedere le croci e i timori terreni, restituendo consolazione e speranza. «Se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui» (2 Tm 2,11), ricorda infatti san Paolo.

Un classico della letteratura cristiana, il De imitatione Christi, esprime in poche parole, citate pure dal Catechismo (CCC 1014), quale deve essere la cura prioritaria delle nostre giornate: «In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso; se avrai la coscienza retta, non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano dal peccato che fuggire la morte. […]». Il corollario è che la salute del corpo va sì curata ma prima ancora bisogna pensare alla salute dell’anima.

Una famosa orazione di Leone XIII esorta a chiedere l’aiuto di san Giuseppe affinché, come lui, «possiamo virtuosamente vivere, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo». Verso questa meta siamo chiamati ad attingere al tesoro di grazie, quali i sacramenti e le indulgenze, che la Chiesa amministra per mandato divino. Al riguardo bisogna ricordare che la Penitenzieria Apostolica, proprio per questo Anno di San Giuseppe, ha emanato un decreto attraverso il quale - rivolgendosi sia ai sani che a tutti quei malati impossibilitati ad uscire di casa - ha concesso il dono dell’indulgenza plenaria [1] a quanti faranno uno degli atti di pietà indicati dalla stessa Penitenzieria (vedi QUI), adempiendo inoltre, non appena possibile, le solite tre condizioni [2]. Una via sicura per la gioia eterna, dunque, come lo è pure questa semplice giaculatoria: «Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi nell’ultima agonia».

 

[1] L’indulgenza plenaria, come insegna la Chiesa, libera in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati. Come dire: se la consegue un moribondo, va in Paradiso senza dover passare dalla purificazione in Purgatorio.

[2] Confessione, Comunione, preghiera (Pater, Ave, Gloria) secondo le intenzioni del Santo Padre.