Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
INTERVISTA AL GIUDICE AIROMA

Messina Denaro, arresto sotto la protezione di Livatino

Negli stessi giorni in cui il boss Messina Denaro veniva arrestato era in corso la straordinaria peregrinatio della reliquia del giudice ragazzino nei palazzi della politica. Il giudice Airoma alla Bussola: «Un segno provvidenziale, che riavvicina le istituzioni al sacro. Il beato Livatino è stato vittima dello stesso consenso che ha permesso la latitanza del boss. E oggi ci conferma che il suo sacrificio ha tolto la Chiesa alla mafia, inquadrando il fenomeno mafioso non nel sociologismo d'accatto marxista, ma come struttura di peccato». 

Ecclesia 24_01_2023

Nello stesso giorno in cui veniva arrestato a Palermo Matteo Messina Denaro, a Roma era in corso, nei palazzi della politica, un evento unico: la peregrinatio della reliquia del beato martire Rosario Livatino. Si tratta della camicia che il giudice indossava nel giorno in cui la stidda di Agrigento lo freddò mortalmente nel 1990 ed è ancora impregnata del suo sangue. È stata esposta e venerata nel corso della settimana scorsa nei luoghi delle massime istituzioni del Paese, tra i quali Camera e Senato, la Suprema Corte di Cassazione, il Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministero di Grazia e Giustizia, Comune di Roma e il Comando Generale della Guardia di Finanza.

Proprio nella settimana in cui, dopo l’arresto del boss di Cosa nostra, i carabinieri hanno proceduto a setacciare i numerosi covi del mafioso, è come se le operazioni dell’arresto di Messina Denaro fossero state inserite – per un misterioso piano divino – sotto la protezione del martire della mafia.

La coincidenza non è sfuggita a Domenico Airoma (in foto), procuratore della Repubblica di Avellino e vicepresidente del Centro Studi Livatino che in questa intervista concessa alla Nuova Bussola Quotidiana non esita a parlare di “dioincidenza”.

Giudice Airoma, l’esposizione della reliquia nei palazzi del potere ha un significato alto, ma insolito. Come la inquadra nel contesto della laicità dello Stato?
Il sacro ha rimesso piede nelle istituzioni, non si tratta di teocrazia né della sovrapposizione di piani, ma del ridare una dimensione verticale alle istituzioni. Questo evento ci aiuta a comprendere che sia il credente che il non credente devono impegnarsi per il bene comune che non può non avere una dimensione verticale. Deve andare al di là della dimensione terrena che prescinde dagli uomini.

Lunedì è stato arrestato Messina Denaro e in quel momento la reliquia era alla Camera, poi al Senato e infine al Ministero dell’Interno. Coincidenze?
Credo poco alle coincidenze, semmai alle cosiddette “dioincidenze”, io lo vedo come un segno della Provvidenza, d’altra parte tutta la storia di Livatino ha i tratti del provvidenziale. E anche il fatto che, dopo essere stato beatificato, venga fatto conoscere nei palazzi del potere è davvero provvidenziale, per lui, che viene da un paesino della provincia siciliana, Canicattì, da una famiglia che, se vogliamo, incarna proprio quei valori tradizionali e religiosi che un certo sociologismo d’accatto identifica come una delle cause del fenomeno mafioso.

Invece la sua testimonianza di cristiano impegnato contro la mafia fino a versare il sangue ci dice che il suo martirio è quanto mai attuale?
Altroché. Si sottolinea poco il fatto che Livatino ebbe il coraggio di scrivere cose controcorrente contro il protagonismo giudiziario, ma anche contro l’eutanasia e la manipolazione genetica, temi attuali che oggi possono essere letti profeticamente. Ha saputo anticipare queste istanze perché aveva ben chiara la dignità dell’uomo. Questo va messo in risalto per evitare di ridurre la sua figura ad un semplice santino della magistratura antimafia.

Lei fa lo stesso lavoro di Livatino, perché dalla sua prospettiva è santo?
Perché ha vissuto la giustizia come vocazione e dedizione anzitutto a Dio, il suo essere martire è l’esito coerente di un sacrificio che ha vissuto nel quotidiano.

Torniamo alla peregrinatio, lei ha tenuto l’orazione finale nella quale ha detto anche che «è possibile sconfiggere la tracotanza mafiosa se torniamo alle radici etiche e spirituali del nostro popolo». Che cosa voleva dire?
Quello che ho toccato con mano mi ha sorpreso, ho visto persone delle istituzioni lontane dalla fede commuoversi, come se avessero riacquistato quell’incanto di fronte al sacro che abbiamo perso. Quella camicia insanguinata è un raggio di luce, uno schiaffo che squarcia la coltre che ci siamo costruiti.

Si è molto parlato delle connivenze che hanno permesso la copertura per 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro. Il giudice ragazzino conosceva questo brodo culturale?
Di più, lo ha patito. Non riusciremmo a spiegarci questa lunga latitanza se non avessimo presente il consenso sociale di cui purtroppo gode Cosa nostra, come anche la ‘Ndrangheta. Non si tratta di fare dietrologie particolari, ma è evidente che la latitanza è stata possibile perché vi è stato costruito attorno un consenso.

Perché allora c’è questo consenso?
Sicuramente perché occupa un vuoto lasciato dai corpi intermedi, come la famiglia, ma anche la Chiesa e questo va detto con nettezza.

Livatino era consapevole di questo consenso e di questo vuoto da riempire?
Certamente. Non dimentichiamo che abitava in un edificio in cui al piano di sopra viveva il capo della stidda locale e dovette far fronte a questa condizione di isolamento in cui magistrati e forze di polizia vivevano all’epoca, con una buona dose di diffidenza. Quante volte la stele che ricorda il suo sacrificio è stata imbrattata e danneggiata?

Che cosa dice invece alla Chiesa?
Livatino toglie al mafioso la Chiesa. San Giovanni Paolo II pronuncia la famosa invettiva contro i mafiosi proprio dopo aver incontrato i suoi genitori, da quel momento la Chiesa cambia registro nell’affrontare la questione mafiosa.

Che cosa intende dire?
La Chiesa passa da una fase di silenzio di fronte al fenomeno mafioso a una fase in cui adottò lo schema interpretativo del sociologismo marxista, che dà una spiegazione economicistica della mafia, come figlia dell’emarginazione. Poi, finalmente, arriva San Giovanni Paolo II che va alle radici della questione mafiosa, che sono radici morali, la perdita del senso del peccato e del senso del giusto. Livatino è il seme di questo cambiamento attraverso cui passa la grazia di Dio che opera. Davvero come diceva Falcone, la Mafia è un fenomeno umano e va affrontato con le categorie di peccato e di giustizia proprie della morale cristiana. Livatino aiuta a capire che c’è un antimafia che non è quella dei professionisti dell’antimafia, per dirla con Sciascia, vuole la conversione del mafioso e questo è stato possibile anche per il suo killer. E offre ai più giovani, come sto vedendo sempre più spesso andando a parlare nelle scuole, una domanda di senso da dare alla propria vita.