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Don Santoro spiegava così la sua missione
«Ci tirano sassi, non me ne vado: è Vangelo»
E si era inventato il calendario triconfessionale
STRUMENTI
ROMA — Da sei anni don Andrea Santoro viveva da solo a Trabzon, che una volta chiamavamo Trebisonda, città turca sul Mar Nero. Unico cristiano in un ambiente totalmente musulmano: solo la domenica aveva con sé una decina di cattolici, che per raggiungerlo dovevano percorrere decine e centinaia di chilometri. Viveva da solo tra i musulmani come Charles de Foucauld all’interno del Sahara e come Annalena Tonelli nel Somaliland e come loro è stato ucciso in circostanze che forse non verranno mai chiarite. «Potrebbe essere considerato un martire del dialogo interreligioso », dice il vescovo Vincenzo Paglia che l’aveva avuto compagno di studi. Sessant’anni, originario di Priverno in provincia di Latina, entrato in seminario a 11 anni dopo la morte del padre Gaetano, don Andrea aveva maturato lungamente, negli anni, la «vocazione» a farsi «ponte» e finestra» verso l’Islam.
Nel 1968, inquieto sulla sua «vocazione», era andato in Terra Santa e vi era restato per quasi un anno, decidendosi infine a chiedere al cardinale Poletti di essere mandato «missionario» in Medio Oriente. Poletti gli rispose che anche l’Italia era ormai «terra di missione» e gli affidò la parrocchia di Gesù di Nazareth, in un quartiere della periferia romana ancora senza chiesa. Nel Duemila è tornato a bussare alla porta del cardinale vicario Ruini, che infine l’ha autorizzato a partire per la Turchia. Anche la Turchia per lui era una Terra Santa, «perché vi sono passati gli apostoli e vi è scorso il sangue dei martiri ». Gli amici romani che l’avevano aiutato a restaurare la chiesa dove è morto, ultimamente l’avevano chiamato a tenere una conferenza il 22 gennaio alla Sapienza. Lì don Andrea aveva «narrato» la sua idea di «fare da finestra, cioè da luogo di comunicazione e di incontro tra mondi lontani, tra Islam, Ebraismo e Chiese cristiane ».
Così, non a caso, aveva fondato l’associazione «Finestra per il Medio Oriente» (www.finestramedioriente.it). Apriva la sua chiesa ai visitatori musulmani due volte la settimana. Non si spaventava se i ragazzi del quartiere entravano di corsa a sputare sul pavimento e di corsa fuggivano e se la sera, quando scriveva agli amici lontani, sobbalzava al botto di un sasso o di una bottiglia di plastica piena d’acqua che qualche «bullo» lanciava contro la sua porta. «È gente buona», diceva ai visitatori. E ancora: «Stare qui è difficile ma è Vangelo. Dobbiamo essere come agnelli, seguendo l’insegnamento di Gesù». In una lettera dell’anno scorso alla diocesi di Roma, che si può leggere nel sito del Vicariato (www.vicariatusurbis.org), aveva scritto: «Il lievito, come dice il Vangelo, ha una sua capacità misteriosa di fermentare la pasta, se viene messo in contatto con essa. Che la nostra vita sia la cera che si consuma in totale disponibilità». Maddalena Santoro, la sorella più piccola, sceglie parole semplici: «Mio fratello era un missionario nel vero senso della parola. Per lui l'uomo era uno solo, gli uomini, cristiani o musulmani, sono uguali».
Sulla via del dialogo, il sacerdote aveva deciso un anno fa di aprire dalle 10 alle 11 di mattina e poi dalle 15 alle 16 le porte della chiesa anche ai musulmani. «Era per far vedere — spiega Maddalena — che le religioni sono uguali: i cristiani pregano ad un'ora e i musulmani ad un'altra, così come alcuni popoli parlano una lingua e altri un'altra. Ma l'incontro è possibile ». Era un prete così, don Andrea. S’era inventato pure il calendario triconfessionale, con le festività più importanti per i cattolici, i musulmani e gli ebrei. «Uno che quando diceva l’omelia, tu Gesù lo vedevi...», racconta commossa Beatrice Naso, una sua ex parrocchiana della chiesa di Gesù di Nazareth. Fu lui, nel 1988, a fondare dal nulla questa chiesa. Prima i fedeli del Forte Tiburtino, periferia est della capitale, si radunavano come carbonari in un modesto casotto condominiale adibito anche a deposito della spazzatura. Lui lottò con il Comune per otto anni, finché ottenne l’area per l’edificazione. Poi nel 2000 fu parroco nella chiesa dei Santi Flaviano e Venanzio. «Ma il suo sogno era sempre stato quello di fare il missionario », racconta da Latina la cugina Stella Picozza. E arrivò Trebisonda. Dalla Turchia, comunque, è sempre rimasto in contatto con i suoi parrocchiani di Roma. Mandava loro e-mail come queste: «Coraggio, andate avanti, non abbiate paura, fate come me». Ed ecco l’ultima: «Fate del vostro meglio, accumulate il Bene, il capitale poi lo troverete in Cielo». Una fede senza confini.
Luigi Accattoli, Fabrizio Caccia
06 febbraio 2006