MaM
Messaggio del 25 maggio 2001: Cari figli, in questo tempo di grazia vi invito alla preghiera. Figlioli, lavorate tanto ma senza la benedizione di Dio. Benedite e cercate la sapienza dello Spirito Santo affinchè vi guidi in questo tempo per poter comprendere e vivere nella grazia di questo tempo. Convertitevi, figlioli, e inginocchiatevi nel silenzio del vostro cuore. Mettete Dio al centro del vostro essere cosicché possiate testimoniare nella gioia le bellezze che Dio vi dona continuamente nella vostra vita. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.

LUCIA RACCONTA FATIMA - Parte quarta

02/07/2016    2373     Fatima    Fatima  Suor Lucia di Fatima 
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quarta memoria

Il 7 ottobre 1941, sua ecc. mons. José Alves Correia de Silva ordinò a Lucia di scrivere qualsiasi altra cosa che ricordasse sugli avvenimenti di Fatima. L’8 dicembre la veggente consegnò il manoscritto.

JMJ Eccellenza reverendissima,

dopo un'umile preghiera ai piedi del tabernacolo e del Cuore immacolato di Maria, nostra tanto cara Madre del cielo, dove ho chiesto la grazia che non permettano che scriva nemmeno una semplice lettera che non sia per la Sua gloria, mi accingo (all'opera), nella pace e felicità di coloro che hanno la coscienza sicura che fanno in tutto la divina volontà.

Così, completamente abbandonata nelle braccia del Padre celeste e sotto la protezione dell'immacolato Cuore di Maria, vengo a deporre ancora una volta nelle mani dell'E.V. rev.ma, i frutti dell'unica mia pianta: l'ubbidienza.

Prima di cominciare, ho voluto aprire il Nuovo Testamento, l'unico libro che voglio avere qui davanti a me, in un angolo ritirato della soffitta, alla luce di una povera tegola di vetro, luogo dove io mi ritiro, per sfuggire per quanto mi è possibile, agli sguardi umani. Le ginocchia mi fanno da scrivania e una vecchia valigia serve da sedia. «Perché - mi domanderà qualcuno - non scrive nella sua cella?». Il buon Dio ha pensato bene di privarmi anche della cella, anche se qui in casa, ce n'è parecchie e vuote. In verità, per la realizzazione dei suoi disegni, torna meglio la sala di ricreazione e di lavoro, tanto più scomoda per scrivere qualche cosa durante il giorno, quanto troppo buona per riposare durante la notte. Ma sono contenta e ringrazio Dio per la grazia di essere nata povera e di vivere ancora più povera per amore suo.

Ah, mio Dio! Ma non era affatto questo che io volevo dire.

Torno a quello che Dio mi ha messo davanti, quando ho aperto il Nuovo Testamento. Nella lettera di san Paolo ai Filippesi, 11,5-8, ho letto questo:

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che erano in Cristo Gesù. Egli, pur possedendo la natura divina..,, annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo... Umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte». Dopo aver meditato un poco, ho letto ancora nello stesso capitolo i versetti 12 e 13: «Lavorate per la vostra salvezza, con timore e tremore. Perché è Dio che produce in voi, a Suo piacimento, il volere e l'operare».

Benissimo. Non ho bisogno di nient'altro: ubbidienza e abbandono in Dio, che è Colui che opera in me. In realtà, altro - non sono che il povero e miserabile strumento di chi vuole servirsi e che tra poco, come il pittore butta nel fuoco il pennello che non usa più, perché si riduca in cenere, così il divino pittore ridurrà alle ceneri della tomba il suo strumento che ormai non serve più, fino al grande giorno degli alleluia eterni. io desidero ardentemente quel giorno, perché la tomba non annienta tutto, e la felicità dell'amore eterno e infinito comincia lì.

Eccellenza reverendissima, il 7 ottobre 1941, a Valenza, il rev. P. Galamba mi domandò: «Lei, sorella, quando ha detto che la penitenza era stata fatta solo in parte, lo ha detto da se stessa o le è stato rivelato?». Mi pare, E. rev.ma che io non dico e - non scrivo -in tali casi - nessuna cosa che provenga soltanto da me. Devo ringraziare Dio per l'assistenza del divino Spirito Santo, che io sento - mentre mi suggerisce quello che devo scrivere o dire. Se, a volte, la mia stessa immaginazione o la mia mente mi suggeriscono qualche cosa, mi accorgo subito che gli manca l'unzione divina e sospendo fino a conoscere, - nell'intimo della mia - anima, quello che Dio vuole dire al suo posto. Ma perché sto dicendo tutto questo? Non lo so; lo sa Dio, che ha ispirato a V.E,. rev.ma di ordinarmi di dire tutto; che avvertitamene non nasconda niente.

Comincerò dunque, eccellenza reverendissima, a scrivere quello che il buon Dio vorrà farmi ricordare di Francesco. Spero che nostro Signore gli faccia conoscere in Cielo quello che a suo riguardo io scrivo in terra, affinché, insieme a' Gesù e a Maria, interceda per me, specialmente in questi giorni.

L'amicizia che mi legava a Francesco era soltanto quella che derivava dalla parentela e dalle grazie che il cielo si degnava concederci.

Francesco non pareva fratello di Giacinta, se non nei tratti del volto e nella pratica della virtù. Non era come lei capriccioso e vivace. Era, al contrario, di natura pacifica e arrendevole.

Quando, durante i nostri giochi, qualcuno s'impuntava a negargli i suoi diritti, dopo che aveva vinto, cedeva senza resistenza, limitandosi a dire soltanto: «Credi di aver vinto tu? E va bene! a me, questo non m'importa» Non manifestava, come Giacinta, la passione per la danza. Gli piaceva di più suonare il piffero, mentre gli altri danzavano. Nei giochi era abbastanza animato, ma a pochi piaceva giocare con lui, perché perdeva quasi sempre. Io stessa confesso che avevo poca simpatia per lui, perché la sua natura pacifica eccitava a volte i nervi dalla mia eccessiva vivacità. A volte, lo prendevo per un braccio e lo facevo sedere per terra o su qualche masso, e gli dicevo di stare quieto, e lui ubbidiva come se io avessi una grande autorità. Dopo sentivo rimorso e andavo a prenderlo per mano e veniva con lo stesso buon umore come se non fosse successo niente..

Se qualche bambino insisteva a prendergli qualche cosa che era sua, diceva: «Lascia perdere! A me, che m'importa!».

Mi ricordo che arrivò una volta a casa mia con un fazzoletto da tasca col disegno della Madonna di Nazareth, che gli avevano portato poco prima dalla spiaggia. Me lo mostrò con grande gioia e tutti i ragazzi lì intorno vennero a vederlo. Di mano in mano, in pochi istanti, il fazzoletto sparì. Si cercò, ma non si riusciva a trovano. Poco dopo io lo scopersi nella tasca di un altro piccolo. Glielo volevo prendere, ma lui insisteva che era suo, che anche a lui lo avevano portato dalla spiaggia. Allora, Francesco, per finirla con la questione, si avvicinò e disse: «Lascia perdere! A me che m'importa del fazzoletto!». Mi pare che se fosse cresciuto, il suo difetto principale sarebbe stato quello di «non te la prendere».

Quando, verso i sette anni, cominciai a pascolare il mio gregge, lui parve restare indifferente. Veniva la sera ad aspettarmi con la sua sorellina, ma sembrava che venisse più per far piacere a lei che per amicizia. Venivano ad aspettarmi nel cortile dei miei genitori. E mentre Giacinta correva verso di me, non appena sentiva i campani del gregge, lui mi aspettava seduto su alcuni gradini di pietra che c'erano davanti alla porta di casa. Dopo, veniva là con noi nella vecchia aia a giocare, mentre aspettavamo che la Madonna e gli angeli accendessero i loro lumini. Si entusiasmava anche a contarli, ma nulla lo affascinava tanto come una bella aurora o un bel tramonto. E fino a quando se ne intravedeva qualche raggio, non scrutava se c'erano già dei lumini accesi. «Nessun lume è così bello come quello di nostro Signore», diceva a Giacinta a cui piaceva di più quello della Madonna, perché - diceva Lei - «non fa male agli occhi». E, entusiasmato, seguiva con lo sguardo tutti i raggi che, dardeggiando sui vetri delle case dei villaggi vicini, o nelle gocce di acqua sparse sugli alberi e sulle macchie dei monti, li facevano brillare come altrettante stelle, a suo parere mille volte più belle che quelle degli angeli.

Quando, con tanta insistenza, chiese alla madre che lo lasciasse andare col suo gregge per poter venire con me, era più per far piacere a Giacinta, che voleva più bene a lui che al suo fratello Giovanni.

Un giorno che la madre, già poco soddisfatta, non gli diede questo permesso, rispose, con la sua naturale tranquillità: «A me, mamma, m'importa poco; è Giacinta che vuole che io ci vada».
In un'altra occasione, confermò questo stesso fatto. Venne a casa mia una elle mie vecchie compagne e m'invitò ad andare con lei, perché aveva per quel giorno un buon pascolo. Il tempo era nuvoloso. Allora arrivai fino alla casa di mia zia a chiedere se andava Francesco con Giacinta, oppure se andava il loro fratello Giovanni, perché, nel caso che andasse quest'ultimo, io preferivo la compagnia dell'altra vecchia compagna. Mia zia aveva già deciso che quel giorno, siccome minacciava di piovere, andava Giovanni. Ma Francesco volle ancora insistere un'ultima volta presso la madre. Al ricevere un no secco e tondo, rispose: «Per me, fa lo stesso! ~ Giacinta che ci patisce di più».

Ciò che lo divertiva di più, quando andavamo per i monti, era star seduto sulla roccia più alta e suonare il suo piffero o cantare. Se la sua sorellina scendeva con me a fare alcune corse, lui restava tutto preso con le sue musiche e canti. Quello che cantava più spesso era:

Amo Dio su in cielo;

Lo amo anche in terra.

Amo nel campo i fiori;

amo le pecore sui monti.

Sono una povera pastora; prego sempre Maria; in mezzo al mio gregge, sono il sole di mezzodì.

Con i miei agnellini, ho imparato a saltare;

sono l'allegria dei monti, sono il giglio della valle.

Ai giochi prendeva parte tutte le volte che lo invitavamo a farlo; ma a volte manifestava poco entusiasmo dicendo: «Vengo, ma so che perdo».

I giochi che sapevamo e con cui ci divertivamo erano: quello dei sassetti, dei pegni, passare l'anello, quello del bottone, il paletto, le piastrelle, le carte (giocare a briscola, scoprire i re, i fanti e le regine ecc.). Avevamo due mazzi: uno, mio; un altro, loro. Il gioco preferito da Francesco era quello delle carte: a briscola.

Durante l'apparizione dell'angelo, si prostrò come sua sorella e come me, portato da una forza soprannaturale, che a ciò ci spingeva; ma l'orazione imparò sentendola ripetere da noi, perché dall'angelo non aveva sentito dire niente.

Quando in seguito, ci prostravamo per recitare questa orazione, lui era il primo che si stancava della posizione; ma testava in ginocchio o seduto, pregando anche lui, finché noi non avessimo finito. Dopo diceva: «Io non sono capace di stare così tanto tempo, come voi. Mi fa tanto male la schiena, che non ci riesco».

Durante la seconda apparizione dell'angelo vicino al pozzo, passati i primi istanti, mi domandò:

- Tu hai parlato con l'angelo: che cos'è che ti ha detto?

- Non hai sentito?

- No. Ho visto che parlava con te; ho sentito quello che tu gli hai detto; ma quello che lui ha detto a te, non so.

L'atmosfera soprannaturale in cui ci lasciava non era ancora passata e così io gli dissi che me lo chiedesse il giorno dopo, oppure che lo chiedesse a Giacinta.

- Giacinta, raccontami tu quello che ti ha detto l'angelo.

È - Te lo dico domani. Oggi non posso parlare.

Il giorno dopo, non appena mi fu vicino, mi domandò: «Hai dormito stanotte? Io ho pensato sempre all'angelo e a che cosa mai ti avrà detto». Gli raccontai allora tutto quello che l'angelo ci aveva detto nella prima e nella seconda apparizione. Ma lui pareva non aver avuto la comprensione di quello che le parole significavano e domandava: «Chi è l'Altissimo? Che cosa vuoI dire: i Cuori di Gesù e di Maria sono attenti alla voce delle vostre suppliche?» ecc. E, ottenuta la risposta, stava a pensare e subito dopo interrompeva con un'altra domanda. Ma il mio spirito non era ancora libero del tutto e io gli dissi di aspettare fino al giorno seguente; che in quel giorno io non potevo ancora parlare. Aspettò contento, ma non si lasciò sfuggite le prime occasioni per fare subito altre domande, cosa che indusse Giacinta a dirgli: «Senti! Di queste cose, parla poco!».

Quando parlavamo dall'angelo, non so che cosa si provava. Giacinta diceva:

- Non so che cosa sento! Ormai non posso più parlare, né cantare, né giocare e non ho forza per fare niente.

- Nemmeno io - rispose Francesco - ma che cosa importa, l'angelo è più bello che tutte queste cose. Pensiamo a lui.

Durante la terza apparizione la presenza del soprannaturale fu di gran lunga ancora più intensa. Per vari giorni, nemmeno lo stesso Francesco aveva il coraggio di parlare. E dopo diceva: «Mi piace molto vedere l'angelo, ma il brutto è che dopo non siamo buoni a niente! Io non ero buono neanche a camminare. Non so che cosa avevo! » Nonostante tutto ciò, fu lui che si rese conto, dopo la terza apparizione dell'Angelo, che la notte era vicina. Fu lui che ce lo fece notare e che pensò a riportare il gregge verso casa.

Passati i primi giorni e ritornati allo stato normale, Francesco domandò:

- L'angelo a te ha dato la santa comunione; ma a me e a Giacinta che cos’è che ci ha dato?

- Anche a noi ha dato la santa comunione - rispose Giacinta in una felicità indicibile - Non capisci che era il sangue che cadeva dall'ostia?

- Io sentivo che Dio stava dentro di me, ma non sapevo come! - E, prostrandosi per terra, rimase a lungo con la sorella, a ripetere l'orazione dell'angelo: « Santissima Trinità... ecc.».

A poco a poco, quell'atmosfera scomparve e il giorno 13 maggio ormai potevamo giocare con lo stesso piacere di prima e con la stessa libertà di spirito.

L'apparizione della Madonna tornò a farci concentrare nel soprannaturale, ma con più soavità. Invece di quell'annientamento in presenza del divino, che ci prostrava anche fisicamente, ci lasciò una pace e un'allegria espansiva, che non c'impediva di parlare in seguito di quello che era avvenuto. Invece, riguardo al riflesso che la Madonna ci aveva comunicato con le mani e di tutto ciò che ad esso si rapportava, sentivamo un non so che interiore, che c'induceva a tacere. Raccontammo, in seguito, a Francesco tutto quello che la Madonna aveva detto. E lui, felice, manifestando la contentezza che provava per la promessa di andare in cielo, incrociando le mani sul petto, diceva: «O Madonna mia! Di rosari ne dico quanti vi pare!». E da allora, prese l'abitudine di allontanarsi da noi come se stesse passeggiando... E se lo chiamavo e gli domandavo che cosa andava a fare, alzava il braccio e mi mostrava la corona. Se gli dicevo che venisse a giocare che dopo avrebbe pregato con noi, rispondeva: «Pregherò anche dopo. Non ti ricordi che la Madonna ha detto che dovevo recitare molti rosari?».

Un giorno mi disse: «Mi è piaciuto molto vedere l'angelo; ma mi è piaciuto ancora di più vedere la Madonna. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è stata di vedere nostro Signore in quella luce che la Madonna ci ha messo nel petto. Io voglio tanto bene a Dio! Ma Lui è così triste a causa di tanti peccati. Noi non dobbiamo farne mai neanche uno».

Ho già detto, nel secondo scritto su Giacinta, che fu lui a darmi la notizia che lei era venuta meno al nostro patto di non dire niente. E siccome il mio parere era che si doveva mantenere il segreto, aggiunse, con aria triste: «Io, siccome la mamma mi ha domandato se era vero, ho dovuto dire di si, per non mentire».

A volte diceva: «La Madonna ha detto che avremmo dovuto soffrite molto! Non m'importa; soffro tutto quello che Le pare! A me mi basta andare in cielo».

Un giorno che mi mostravo contrariata per la persecuzione che dentro e fuori della famiglia cominciava a manifestarsi, lui cercò d'incoraggiarmi dicendo: «Lascia perdere! Non ha detto la Madonna che avremmo dovuto soffrire molto in riparazione a nostro Signore e al suo Cuore immacolato di tanti peccati con cui sono offesi? Loro sono così tristi! Se con queste sofferenze potremo consolarli, dobbiamo accontentarci così».

Pochi giorni dopo la prima apparizione della Madonna, arrivati sul luogo del pascolo, sali su una roccia elevata e ci disse:

- Voi non venite quassù. Lasciatemi solo.

- Va bene. - E mi misi con Giacinta a correre dietro alle farfalle, che prendevamo, per subito fare il sacrificio di lasciarle andare, e non ci ricordammo nemmeno di Francesco. Arrivata l'ora della merenda, ci accorgemmo che non c'era e andai a chiamarlo.

- Francesco, non vuoi venire a far merenda?

- No, mangiate voi.

- E a dire il rosario?

- A pregare, dopo, vengo. Chiamami di nuovo.

Quando lo chiamai di nuovo, mi disse:

- Venite voi quassù a pregare vicino a me. - Salimmo sulla cima della roccia dove a malapena potevamo stare tutti e tre in ginocchio e io gli domandai:

- Ma che cosa stai a fate qui tutto questo tempo?

- Penso a Dio che è così triste a causa di tanti peccati! Se io fossi capace di dargli un po' di gioia!

Un giorno ci mettemmo a cantare in coro le gioie della montagna:

Coro: Ah, tra lalà, là là tra lalà là là là là là!

In questa vita tutto canta

con me, si fa a chi canta meglio:

canta la pastora sui monti, canta la lavandaia al fiume.

È la voce del cardellino che mi viene a risvegliare! Non appena sorge il sole nelle selve a cantare!

Di notte canta la civetta che mi vuole spaventare, mentre spannocchia canta la ragazza al chiaro di luna!

L'usignolo per il piano passa il giorno a cantare! Canta la tortora nel bosco e stridendo canta il carro.

La montagna è un giardino, che sorride tutto il giorno! Son le gocce di rugiada che luccicano sulle montagne!

Finito di cantare la prima volta, stavamo per fare il bis, ma Francesco c'interruppe: «Non cantiamo più. Da quando abbiamo visto l'angelo e la Madonna, io non ho più voglia di cantare».

Nella seconda apparizione, il 13 giugno 1917, Francesco s'impressionò molto per la comunicazione del riflesso che, come ho già detto nel secondo scritto, avvenne proprio quando la Madonna diceva: «Il mio immacolato Cuore sarà il tuo rifugio e il cammino che ti condurrà a Dio». Pareva non avere al momento la comprensione dei fatti, forse perché non gli era dato dì udite le parole che li accompagnavano. Perciò dopo domandava:

- Come mai la Madonna stava con un Cuore in mano, diffondendo sul mondo quella luce così grande che è Dio? Tu stavi con la Madonna nella luce che scendeva verso terra, e Giacinta con me in quella che saliva verso il cielo!

- Il fatto è - gli risposi - che tu con Giacinta tra poco andrai in cielo; e io rimango col Cuore immacolato di Maria ancora un po' qui in terra.

- Quanti anni rimani qui? - domandava.

Non so; parecchi.

- È stata la Madonna a dirtelo?

- Si, è stata Lei. E io l'ho visto in quella luce che ci ha messo nel petto. E Giacinta confermava la stessa cosa, dicendo: «E’ proprio così! Anch'io l'ho visto!». A volte diceva: «Questa gente è così contenta solo perché noi gli diciamo che la Madonna ci ha detto di dite il rosario e che tu imparassi a leggere! Che cosa succederebbe se sapessero quello che Lei ci ha mostrato in Dio, nel suo Cuore immacolato, in quella luce così grande! Ma questo è segreto; non gli si dice. E’ meglio che nessuno lo sappia».

Da questa apparizione, cominciammo a dire, quando ci domandavano se la Madonna non ci avesse detto nient'altro: «Si, ha detto altre cose, ma è segreto. Se ci domandavano il motivo per cui era segreto, alzavamo le spalle e, abbassando la testa, stavamo in silenzio. Ma, passato il 13 luglio, dicevamo: «La Madonna ci ha detto di non dirlo a nessuno», riferendoci allora al segreto voluto dalla Madonna.

Durante questo mese aumentò in modo considerevole l'affluenza di popolo e, con essa, i continui interrogatori e le opposizioni. Francesco soffriva abbastanza per questo e se ne lamentava dicendo alla sorella: «Come mi dispiace! Se tu fossi stata zitta, nessuno io saprebbe! Se non fosse perché è una bugia, basterebbe dire a tutti che non abbiamo visto niente e tutto finirebbe li. Ma ciò non è possibile!».

Quando mi vide perplessa per il dubbio, piangeva e diceva: «Ma come fai a pensare che è il demonio? Non hai visto la Madonna e Dio in quella luce così grande? Come facciamo noi a andarci senza di te, se sei tu che devi parlare?». Dopo cena - era ormai buio - ritorno a casa mia, mi chiamò nella vecchia aia e mi disse:

- Senti: tu vieni domani?

- No, non ci vado. Ho già detto che non ci torno più.

- Come mi dispiace! Ma come mai tu adesso pensi così? Non vedi che non può essere il demonio? Dio è già così triste per tanti peccati e ora, se tu non vieni, sarà ancora più triste! Dai, vieni!

- Ti ho già detto che non ci vengo. Puoi risparmiarti di domandarmelo. - E bruscamente entrai in casa.

Passati alcuni giorni, mi diceva: «Ricordi quella sera? Io non ho dormito niente. Ho passato tutta la notte a piangere e a pregare, perché la Madonna ti facesse venire».

Durante la terza apparizione, Francesco sembrò quello che meno s'impressionò alla vista dell'inferno, nonostante che provocasse anche in lui una sensazione abbastanza forte. Ciò che più lo impressionava o attirava era Dio, la santissima Trinità, in quella luce immensa che ci penetrava nel più intimo dell'anima. Dopo, diceva: «Noi stavamo ardendo in quella luce che è Dio e non ci bruciavamo! Com'è Dio? ...Non si può dire! Questo si, noi non possiamo mai dirlo! Ma che pena che lui sia così triste! Se io potessi consolarlo! . . .

Un giorno, mi domandarono se la Madonna ci aveva ordinato di pregare per i peccatori. Io risposi di no. Non appena poté, mentre interrogavano Giacinta, mi chiamò e mi disse:

- Tu, adesso, hai detto una bugia! Come mai hai detto che la Madonna non ci ha ordinato di pregare per i peccatori? Come no, non ci ha ordinato di pregare per i peccatori?

- Per i peccatori, no! Ci ha ordinato di pregare per la pace, perché finisca la guerra. Per i peccatori ci ha ordinato di fare sacrifici.

- Ah, è vero! E io credevo proprio che avevi detto una bugia.

Ho già detto, che lui passò la giornata a piangere e a pregare, in un tormento forse più grande del mio, quando intimarono a mio padre di portarmi a Vila Nove de Ourém. In prigione, si mostrò abbastanza animato e cercava di animare Giacinta nelle ore di maggior nostalgia. Quando recitammo il rosario in prigione, lui s'accorse che uno dei carcerati stava in ginocchio col basco in testa. Gli andò vicino e gli disse: «Lei, se vuol pregare, deve togliersi il basco». E il poveretto senz'altro glielo consegna e lui lo mette sul suo berretto in cima a una panca.

Mentre interrogavano Giacinta, lui mi diceva con immensa tranquillità e allegria: Se ci ammazzano, come dicono, tra poco siamo in cielo! Che bellezza! A me non importa niente!». E, dopo un momento di silenzio: «Dio voglia che Giacinta non abbia paura! Io dico un'avemmaria per lei». E, senz'altro, si toglie il berretto e prega. L'agente di custodia, a vederlo in atteggiamento di pregare, gli dice:

- Cosa stai dicendo?

- Sto dicendo un'Ave Maria perché Giacinta non abbia paura.

L'agente fece un gesto di disprezzo e lasciò fare.

Quando, dopo il ritorno da Vila Nova de Ourém, cominciammo a sentire che la presenza del soprannaturale ci avvolgeva, presentendo che una comunicazione celeste si avvicinava, Francesco si mostrò preoccupato perché Giacinta non c’era:

- Mi dispiace - diceva - se Giacinta non arriva a tempo. - E chiese al fratello di andare in fretta:

- Dille che venga correndo. - Partito il fratello, diceva a me: «Giacinta, se non arriva a tempo, ci resterà molto male».

Dopo l'apparizione, disse alla sorella che voleva rimanere lì il resto del pomeriggio: «No! Tu devi andar via, perché la mamma non ti ha lasciato venire con le pecore». E, per incoraggiarla, l'accompagnò fino a casa.

Quando, in prigione, vedemmo che stava passando mezzogiorno e che non ci lasciavano andare a Cova da Iria, Francesco disse: «Può darsi che la Madonna venga ad apparirci qui». Ma, il giorno dopo, manifestava grande pena e diceva, quasi piangendo: «Può darsi che la Madonna sia rimasta triste, perché non siamo andati a Cova da Iria. E è possibile che non ci riappaia più. A me piacerebbe tanto vederla!».

Quando Giacinta, in prigione, piangeva al ricordo della mamma e della famiglia, lui cercava d'incoraggiarla e diceva: «La mamma, se non la rivediamo, pazienza! Offriamo per la conversione dei peccatori. Il peggio è se la Madonna non torna più. Questo è quello che mi dispiace di più! Ma offro anche questo per i peccatori». Poi mi domandava:

- Senti: la Madonna non ci riapparirà mai più?

- Non so. Credo di si.

- Ho tanta voglia di rivederla.

L'apparizione a Valinhos fu dunque per lui motivo di doppia allegria. Si sentiva torturato dal timore che Lei non tornasse. Inoltre diceva: «Di sicuro non ci è apparsa il giorno tredici, per non aver da andare in casa del signor sindaco, forse perché lui è così cattivo».

Quando, dopo il 13 settembre, gli dissi che in ottobre sarebbe venuto anche nostro Signore, lui mostrò una grande gioia: «Ah, che bellezza! L'abbiamo visto solo altre due volte e io gli voglio tanto bene». Ogni tanto domandava: «Mancheranno ancora molti giorni al 13? Non vedo l'ora che venga, per vedere un'altra volta nostro Signore. Poi pensava un po' e diceva:

«Ascoltami! Lui sarà ancora tanto triste? Mi dispiace tanto che sia così triste! Io offro tutti i sacrifici che riesco a fare. A volte ormai non fuggo più da questa gente, per fare sacrifici».

Dopo il giorno 13 ottobre, diceva: «Mi è piaciuto molto vedere nostro Signore. Ma più ancora mi è piaciuto vederlo in quella luce in cui eravamo anche noi. Tra poco ormai Nostro Signore mi porta lassù vicino a Lui, e così Lo vedo sempre».

Un giorno gli domandai:

- Come mai tu, quando ti domandano qualcosa, abbassi la testa e non vuoi rispondere?

- Perché prima voglio che risponda tu o Giacinta. Io non ho sentito niente. Io solo posso dire si, che ho visto. E poi se dico qualcuna di quelle cose che tu non vuoi?

Ogni tanto, si allontanava da noi di nascosto. Quando ci accorgevamo che non c'era più, ci mettevamo a cercarlo, chiamandolo. Ed ecco che ci rispondeva da dietro un muretto o un arbusto o una macchia, dove stava in ginocchio a pregare.

- Perché non ci avvisi e anche noi preghiamo con te? - gli chiedevo, a volte.

- Perché preferisco pregare da solo.

Ho già raccontate nelle note al libro «Giacinta», quello che avvenne in una proprietà chiamata Varzea. Mi pare che non è necessario ripeterlo qui.

Un giorno, per andare a casa mia, stavamo passando davanti alla casa della mia madrina di battesimo. Aveva appena fatto dell'idromele, e ci chiamò per darcene un bicchiere. Entrammo e Francesco fu il primo a cui lei diede il bicchiere, perché bevesse. Lo prende e, senza bere, lo passa a Giacinta, perché beva per prima insieme con me; e intanto si girò e scomparve.

- Dov'è Francesco? - domandò la mia madrina.

- Non so! Non so! Proprio ora stava qui.

Non si fece rivedere e Giacinta insieme con me, ringraziando per il dono, andammo a trovarlo nel posto dove non dubitammo nemmeno un istante che doveva essere, seduto vicino al pozzo già tante volte ricordato.

- Francesco, tu non hai bevuto l'idromele! La madrina ti ha chiamato tante volte, ma tu non sei venuto fuori.

- Quando ho preso il bicchiere, improvvisamente mi sono ricordato di fare quel sacrificio per consolare nostro Signore e mentre voi altre bevevate sono fuggito qua.

Tra la mia casa e quella di Francesco, viveva il mio padrino Anastasio, sposato con una donna abbastanza anziana, cui il Signore non aveva dato discendenza. Contadini abbastanza ricchi, non avevano bisogno di lavorare. Mio padre si occupava dei loro campi e dirigeva il lavoro delle opre. Riconoscenti per questo avevano, una speciale predilezione per me, specialmente la padrona di casa, che io chiamavo «la madrina Teresa». Se non andavo a casa sua durante il giorno, dovevo andarci la notte, perché lei diceva che non poteva stare senza il suo «pezzettino di donna». Così mi chiamava.

Nei giorni di festa, mi piaceva adornarmi con la sua collana d'oro e coi grandi pendenti, che mi cadevano alquanto sotto le spalle, e con un bel cappello in testa, coperto da palline d'oro, che trattenevano lunghissime penne di vari colori. Nelle feste non ce n'era un'altra più adorna di me; e le mie sorelle con la madrina Teresa erano orgogliose di questo. Gli altri bambini mi venivano intorno in folti gruppi, ammirando il brillare di tanti ornamenti. A dire la verità anche a me piacevano abbastanza le feste e la vanità era il mio peggior ornamento.

Tutti mostravano simpatia e stima per me, meno un'orfanella, di cui la mia madrina Teresa s'era presa la responsabilità alla morte della mamma. Lei pareva temere che io le avrei preso parte dell'eredità che lei aspettava e sicuramente non si sarebbe sbagliata, se il buon Dio non mi avesse destinata ad un'altra eredità ben più preziosa.

Non appena cominciò a spargersi la notizia delle apparizioni, il padrino si mostrò indifferente, e la madrina completamente contraria. Si mostrava scontenta per tali invenzioni, come lei le chiamava. Cominciai perciò a evitare ha sua casa, quando potevo; e con me cominciarono a sparire quei gruppi di fanciulli che lì si riunivano con frequenza e che alla madrina piaceva tanto veder danzare e cantare e dava loro fichi secchi, noci, mandorle, castagne, frutta ecc.

Una domenica pomeriggio, passando con Francesco e Giacinta vicino alla sua casa, ci chiamò: «Venite qua, piccoli imbroglioni! Venite qua! È tanto tempo che non venite». E via a darci le sue ghiottonerie. Come se avessero indovinato il nostro arrivo, gli altri bambini cominciarono a riunirsi. La buona mamma, contenta per vedere di nuovo in casa sua quel gruppo che da tanto tempo si era sciolto, dopo averci invogliato con tante cose, volle vederci danzare e cantare.

- Vediamo un po'. Che si canta, che si canta?

- Gli auguri delusi. - Scelse lei - Una gara. I bambini da una parte, le bambine dall'altra.

Coro: Tu se i il sol di questa sfera:

non negarle i raggi tuoi;

sorrisi di primavera, ah!!!

in sospir non li cambiare.

Auguri alla fanciulla

fragrante al nuovo sole;

perché, radiosa, divina

le carezze d'un'altra aurora.

È un anno ricco di fiori,

ricco di frutti e di bene!

E il nuovo nei suoi albori

ricco di speranze viene.

Sono il tuo mighore dono,

i tuoi migliori auguri!

Cingi con essi la fronte

è k tua migliore corona!

Se hai avuto un bel passato, un futuro più bello t'aspetta

auguri per l'anno che muore, per quello che nasce, auguri!

In questa vita; fior d'Atlantico, in questo amichevole festino, che si celebri in lieto cantico il giardiniere ed il giardino.

Ti fanno tenerezza i fiori della tua terra natale!

La tua casa di casti amori:

i lacci del tuo cuore.

Coro: Ti pare un gesto nobile

che allo spuntare del pennone

la Berlenga e il Carvoeiro, ah!!!

spengano i loro fari?

Ma il mare in spuma scoppia:

è un vortice, eterno fulcro! Ogni notte è una tormenta, ogni tormenta un sepolcro.

Tristi colli di Papoa,

Estelas e Fanlhoes!

Qual tragedia non rimbomba

in ciascun dei suoi marosi!

Ogni scoglio in queste acque

è di morte un presagio! ogni onda canta i suoi dispiaceri ogni croce ricorda un naufragio.

E tu vuoi essere più duro, vuoi nasconderti e sei luce, che dalla vita in mare scuro sì piccola barca conduce.

Coro: Resto ad occhi asciutti

a parlare di addio.

L'esitar fu di minuti, ah!!!

Il mio sacrificio dura tutta la vita.

Parti, ma dì al cielo che tagli il torrente di sue grazie; e faccia seccare 'i fiori di morte, perché non sei il suo canale.

Va', ch'io resto nel dolore ed in lutto il santuario! le campane rintoccheranno a morto sulla cima del campanile.

Ma non appena mi lasci della triste chiesa nel sagrato, lascerò lamenti eterni scrivendo su una lavagna.

Fu giardin ridente e bello questo suolo or senza fiore, non gli mancarono le cure; mancò lui al suo cultore.

Spero dalla Provvidenza promettenti amori!

e li sperino di preferenza quelle che lasciano il patrio nido.

Al suono dell'animato discanto, si riunirono a poco a poco le vicine; e verso la fine ci chiesero il bis. Ma Francesco si avvicinò a me e mi disse:

«Non cantiamo più questa roba. A nostro Signore di sicuro adesso non piace che cantiamo queste cose». E ce la svignammo come potemmo, passando in mezzo al gruppo di bambini e andammo al nostro pozzo prediletto.

Veramente, io, adesso che per obbedienza finisco di scriverlo, mi copro il viso per la vergogna. Ma V.E., su richiesta del P. Galamba, ha pensato opportuno di farmi scrivere i canti profani che sapevamo. Eccoli lì! Non so a quale scopo, ma mi basta sapere che è per compiere la volontà di Dio.

Frattanto si avvicinò il carnevale del 1918. I ragazzi e le ragazze si riunirono nuovamente quell'anno per la tradizionale tavolata e per i giochi propri di quei giorni. Ognuno portava da casa sua una cosa: alcuni, olio; altri, farina; altri, carne; ecc. e, insieme, in una casa destinata a questo scopo, le ragazze cucinavano un magnifico banchetto. E, in quei giorni, era tutto un mangiare e ballare fino alle ore della notte, specialmente l'ultimo giorno.

I ragazzi sotto i 14 anni, facevano la loro festa in un'altra casa, a parte. Vennero dunque in parecchi a invitarmi, perché organizzassi con loro la festa. Sul principio, mi rifiutai. Ma, portata da una vile condiscendenza, cedetti alle insistenze di molte, specialmente di una figlia e di due figli di un uomo di Vasa Velba, José Carreira, che metteva a nostra disposizione la sua casa. Lui stesso e sua moglie insistettero perché ci andassi. Cedetti, dunque, e ci andai con un bel gruppetto a vedere il locale: una bella sala o meglio un salone per i divertimenti e un bel cortile per la cena. Combinammo tutto e tornai di là esteriormente in grande festa, ma dentro sentivo la coscienza che mi urlava rimproveri. Arrivata da Giacinta e Francesco, raccontai loro quel che era avvenuto:

- E tu ritorni a fare quelle tavolate e quei giochi? - mi domandò con serietà Francesco. - Ti sei già dimenticata che abbiamo promesso di non andarci più?

Io non vorrei andarci; ma vedi bene che non la smettono d'insistere perché io ci vada; io non so come fare!

Veramente le insistenze erano molte e le amiche che si riunivano per divertirsi con me non erano meno numerose. Venivano perfino da parecchi paesi ben distanti: da Moita, una Rosa e Anna Caetano e Anna Brogueira; da Fatima, due figlie di Manuel Caracol; da Boleiros, due figlie di Manuel da Ramira e due di Joaquim Chapeleta; da Amoreira, due di Silva; da Currais, una Laura Gato, Josefa VaImbo e parecchie altre di cui non ricordo il nome; da Boleiros, da Lomba da Pederneira, ecc. e tutte queste senza contare quelle che si venivano da Eira de Pedra, casa Velha e Aljustrel. Come, così all'improvviso, deludere tutte quelle ragazze che pareva non sapessero divertirsi senza di me e far loro capire che era necessario finirla una volta per tutte con simili feste? Dio l'ispirò a Francesco:

- Sai come devi fare? Tutti sanno che la Madonna ti è apparsa. Perciò gli dici che Le hai promesso di non andare mai più a ballare; e che perciò

non ci vai. Poi in quei giorni noi ce ne andiamo a Lapa do Cobeço. Lassù nessuno ci trova.

Accettai la proposta; e, data la mia decisione, nessuno pensò mai più a organizzare simili assemblee. Era Dio che benediceva. E quelle amiche, che prima mi cercavano per divertirsi, adesso mi seguivano e venivano a cercarmi in casa, la domenica pomeriggio, perché andassi con loro a recitare il rosario a Cova da Iria.

Francesco era di poche parole; e, per fare la sua orazione e per offrire i suoi sacrifici, gli piaceva nascondersi perfino da Giacinta e da me. Non poche volte lo sorprendevamo dietro a un muretto o a una macchia, dove se n'era andato di nascosto: in ginocchio a pregare o «a pensare - come lui diceva - a nostro Signore, triste a causa di tanti peccati». Se gli domandavo:

- Francesco, perché non m'inviti a pregare con te e con Giacinta?

- Mi piace di più - rispondeva - pregare da solo, per pensare e consolare nostro Signore, che è tanto triste.

Un giorno gli domandai:

- Francesco, che cosa ti piace di più: consolare nostro Signore oppure convertire i peccatori, perché non ci siano più anime che vanno all'inferno?

- Io preferirei consolare nostro Signore. Non hai notato che la Madonna, anche nell'ultimo mese, era tanto triste, quando ci ha detto che non offendessero Dio nostro Signore, che è già molto offeso? Io vorrei consolare nostro Signore e, dopo, convertire i peccatori, perché non lo offendano più.

Quando andava a scuola, a volte, arrivando a Fatima mi diceva: «Senti! Tu va a scuola. Io resto qui in chiesa, vicino a Gesù nascosto. Non vale la pena che io impari a leggere; tra poco vado in cielo. Quando ritorni, vieni qui a chiamarmi».

Il Santissimo si trovava allora entrando in chiesa, dalla parte sinistra. Lui si metteva tra il fonte battesimale e l'altare e lì lo ritrovavo quando tornavo. (Il Santissimo si trovava lì a causa di lavori di restauro alla chiesa).

Dopo che si ammalò, mi diceva a volte, quando per andare a scuola passavo da casa sua: «Senti! Vai in chiesa e fa' tanti saluti a Gesù nascosto da parte mia. Quel che mi fa più soffrire è che non posso più andare a stare un pochino con Gesù nascosto».

Un giorno, arrivata vicino a casa sua, mi congedai da un gruppo di bambini della scuola che venivano con me. Entrai per fare una visita a lui e a sua sorella. Poiché aveva sentito un po' di chiasso, mi domandò:

- Tu sei venuta con tutti quei là?

- Sì, con loro.

Non andare con loro, che potresti imparare a fare peccati. Quando esci

da scuola, va un po' ai piedi di Gesù nascosto e dopo vieni per conto tuo..

Un giorno gli domandai:

- Francesco, ti senti molto male?

- Si, ma soffro per consolare nostro Signore.

Entrando un giorno con Giacinta nella sua stanza, ci disse:

- Oggi parlate poco, ché mi fa molto male la testa.

- Non dimenticarti di offrire per i peccatori, - gli disse Giacinta.

- Si, ma prima di tutto offro per consolare nostro Signore e la Madonna; e soltanto dopo offro per i peccatori e per il santo Padre.

Un altro giorno, arrivando, lo trovai molto contento.

- Ti senti meglio?

- No. Mi sento peggio. Ormai mi manca poco per andare in cielo. Lassù consolerò molto nostro Signore e la Madonna. Giacinta pregherà molto per i peccatori, per il santo Padre e per te; e tu rimam qui, perché la Madonna lo vuole. Senti, fa' tutto quello che Lei ti dirà.

Mentre Giacinta pareva presa dalla sola preoccupazione di convertire i peccatori e liberare anime dall'inferno, lui pareva che pensasse soltanto a consolare nostro Signore e la Madonna, che gli erano sembrati tanto tristi.

Ben differente è un fatto che adesso mi viene in mente. Andammo un giorno in un posto chiamato Pedreira e, mentre le pecore pascolavano, noi saltavamo di roccia in roccia, facendo echeggiare la voce in fondo a quei grandi precipizi. Francesco, secondo la sua abitudine, sì ritirò e andò a nascondersi nel cavo di una roccia. Passato un bel po', lo sentimmo gridare e chiamare noi e la Madonna. Preoccupate per quello che poteva essergli successo, cominciammo a cercarlo e a chiamarlo.

- Dove sei?

- Qui, qui!

Ma ci volle ancora del tempo, per trovarlo. Alla fine, lo trovammo, tremante di paura, ancora in ginocchio, che, mezzo fuori di sé, non aveva nemmeno la forza di alzarsi in piedi.

- Che cos'hai? Che cosa è successo?

Con la voce mezzo soffocata dalla paura, disse: «Era uno di quegli animali grandi che stavano all'inferno, che stava qui ad appiccare il fuoco». Io non vidi niente e nemmeno Giacinta e perciò mi misi a ridere e gli dissi: «Tu non vuoi mai pensare all'inferno per non avere paura; e adesso sei stato il primo ad averla».

Quando Giacinta si mostrava più impressionata al pensiero dell'inferno, lui era solito dirle: «Non pensare tanto all'inferno! Pensa piuttosto a nostro Signore e alla Madonna. Io non ci penso, per non avere paura». E non pareva niente affatto pauroso. Di notte, poteva andare da solo in qualsiasi posto buio, senza far difficoltà. Giocava con le lucertole e i serpenti che

trovava, li faceva arrotolare attorno ad un bastone, e dava loro nella cavità delle pietre latte delle pecore, per farglielo bere. Andava in cerca per le grotte di tane di volpi, di conigli e genette ecc.

Gli piacevano molto gli uccelli; non tollerava che si portassero via i loro nidi. Sbriciolava sempre un po' del pane che portava con sé per lo spuntino, sulla cima delle rocce, perché essi lo mangiassero; e, allontanandosi, li chiamava come se potessero capire; e voleva che nessuno si avvicinasse, per non spaventarli: «Poverini, avete tanta fame diceva parlando con loro -Venite, venite a mangiare!». Ed essi, con la vista acuta che hanno, non si facevano pregare; e venivano in grandi stormi. La sua soddisfazione era allora vederli volare sulla cima degli alberi con il gozzo pieno a cantare in un cinguettare tremendo, che lui imitava benissimo, facendo coro con loro.

Un giorno incontrammo un ragazzetto che aveva in mano un uccellino, che aveva preso. Preso da compassione, Francesco gli promise due ventini se lo lasciava volare. Il ragazzo accettò il contratto, ma prima voleva i soldi in mano. Francesco tornò allora a casa da Lagoa da Carreira, che resta un po' sotto Cova da Iria, a prendere i due ventini per dare libertà al prigioniero. Quando, dopo, lo vide volare, batteva le mani dalla gioia e diceva: «Sta attento, che non ti acchiappino di nuovo».

C'era una vecchietta che chiamavamo Zi’ Maria Carreira, a cui i figli, a volte, portavano al pascolo un gregge di capre e pecore. Queste, poco domestiche, a volte si sparpagliavano un pò da tutte le parti. Quando la incontravamo, Francesco era il primo che correva ad aiutarla. L'aiutava a condurre il gregge al pascolo e le riuniva quelle che si erano sbandate. La povera vecchietta si profondeva in mille ringraziamenti, e lo chiamava il suo angioletto custode.

Quando passavano dei malati, lui era preso da compassione e diceva:

«'Non posso vedere questa gente in simile situazione; mi fanno tanta compassione».

Quando ci chiamavano per parlare con qualche persona che ci cercava, lui domandava se erano malati e diceva: «Se sono malati, non ci vado. Non riesco a guardarli, ché mi fanno troppa compassione! Ditegli che prego per loro!».

Un giorno vollero portarci a Montelo, da un uomo chiamato Joaquim Chapeleta. Francesco non volle venire.

- Io non ci vado. Non riesco a guardare quelle persone che vorrebbero parlare e non ci riescono! - (Quest'uomo aveva la mamma muta).

Quando tornai verso sera con Giacinta, domandai di lui alla zia.

- E che ne so! Mi sono stufata di cercarlo questo pomeriggio. Sono venute delle signore che volevano vedervi. Voi altre non c'eravate e non si è fatto più rivedere. Adesso cercatelo voi!

Ci sedemmo un poco su una panca del sentiero, pensando di andare poi alla Loca - do Cabeço, sicure che era là. Ma non appena mia zia esce di casa, ci parla da una piccola apertura della soffitta.. Era salito lassù, quando s'era accorto che veniva gente.

Da li aveva assistito a tutto quello che era avvenuto e ci diceva dopo:

«Quanta gente c'era! Che Dio mi liberi, se mi prendevano qui da solo! Che cosa avrei potuto dirgli?». (C'era in cucina una botola, da cui, salendo in cima a un tavolo o a una sedia, era facile salire in soffitta).

Come ho già detto, mia zia vendette il suo gregge prima di mia madre. Da allora, al mattino, prima di uscire, avvisavo Giacinta e Francesco del luogo del pascolo dove andavo; e loro, se appena potevano fare una scappata, venivano da me. Un giorno, quando arrivai, erano già là ad aspettarmi.

- Ah, come mai siete venuti così presto?

- Sono venuto - rispose Francesco - perché non so coim’è prima non m'importava molto di te; venivo a causa di Giacinta; ma ora, al mattino, non posso neanche più dormire per la fretta di venire da te!

Passati i giorni 13 del periodo delle apparizioni, alla vigilia del 13 degli altri mesi, diceva: «Sentite! Domattina, molto per tempo, io me ne vado attraverso il giardino a Lapa do Cabeço; e voi altre, appena potete, venite là».

Ah, mio Dio! Io ero già arrivata a scrivere le cose della sua malattia, molto vicina alla morte e adesso vedo che sono tornata ai bei tempi della montagna, tra il dolce cinguettare degli uccelli. Chiedo scusa. Scrivo qui quello che mi viene in mente, come fanno i gamberi, che vanno avanti e indietro, senza preoccuparsi della fine del loro cammino. Il lavoro lo lascio al rev. P. Galamba, se per caso vorrà utilizzare qualcuna di queste cose. Suppongo che 'sarà poco o nulla.

E ritorno dunque alla sua malattia. Ma prima di tutto, ancora un'altra cosa del suo breve periodo di scuola. Uscivo un giorno di casa e m'incontro con mia sorella Teresa, sposata allora da poco tempo a Lomba. Veniva a nome di un'altra donna di un paese vicino, cui avevano arrestato un figlio, accusato di non mi ricordo quale delitto, per il quale, se non si fosse provata la sua innocenza, sarebbe stato condannato all'esilio o almeno a un considerevole numero di anni di prigione. Mi chiedeva dunque con insistenza, a nome della povera donna cui voleva far piacere, che le ottenessi questa grazia dalla Madonna. Ricevuta l'imbasciata, partii per la scuola. E, lungo il cammino, raccontai ai miei cugini quanto stava avvenendo. Arrivati a Fatima, mi dice Francesco: «Senti! mentre tu vai a scuola, io resto con Gesù nascosto e gli domando quell'affare».

Uscita da scuola, andai a chiamarlo e gli domandai:

- Hai chiesto quella grazia a nostro Signore?

- Sì. Di' alla tua Teresa che tra pochi giorni quello viene a casa.

Dopo alcuni giorni, il povero ragazzo era ritornato a casa e il giorno 13 venne con tutta la famiglia a ringraziare la Madonna per la grazia ricevuta.

Un altro giorno, uscendo di casa, notai che Francesco camminava molto adagio.

- Che hai? - gli domandai. - Pare che non riesci a camminare.

- Mi fa molto male la testa e mi sembra che sto per cadere.

- Allora non venire; sta a 'casa.

Non resto, no! Preferisco stare in chiesa con Gesù nascosto, mentre tu vai a scuola.

In uno di quei giorni in cui Francesco, ormai malato, riuscì ancora a fate qualche passeggiata, andai con Lui a Lapa do Cabeço e a Valinhos. Al ritorno, arrivati a casa, la troviamo piena di gente; e una povera donna che, vicino a un tavolo, fingeva di benedire innumerevoli oggetti di pietà: rosari, medaglie, crocifissi, ecc. Giacinta e io fummo subito circondate da numerose persone che volevano interrogarci. Francesco fu preso da quella bigotta beneditrice, che lo invitò ad aiutarla.

- Io non posso benedire - le rispose con serietà - e nemmeno voi! Solo i reverendi sacerdoti possono farlo!

La frase del piccolo si sparse immediatamente tra la folla, come se echeggiasse per mezzo di qualche altoparlante e la povera donna dovette ritirarsi immediatamente tra gl'ìnsulti di quelli che volevano di ritorno gli oggetti che le avevano appena consegnato.

Ho già detto nello scritto su Giacinta che lui riuscì ad andare ancora qualche volta a Cova da Iria; come usò e consegnò la corda; che un giorno dì caldo soffocante, fu il primo a offrire il sacrificio di non bere; e che a volte ricordava alla sorella l'idea di soffrire per i peccatori, ecc. Suppongo che non è perciò necessario ripeterlo qui. Stavo un giorno a fargli un po' di compagnia vicino al suo letto, insieme a Giacinta che si era alzata per un po'. All'improvviso viene sua sorella Teresa ad avvisare che per la strada sta arrivando una gran folla che di sicuro vengono a cercare noi. Non appena lei fu uscita, gli dico: «Bene. Voi aspettateli qua. Io vado a nascondermi. Giacinta fece a tempo a correre dietro a me, e andammo a metterci dentro a un tino, messo vicino all'uscio che dà sul giardino. Non tardammo a udire il chiasso delle persone che, mentre visitavano la casa, uscirono nel giardino. E passarono proprio vicino al suddetto tino, che ci salvò, perché aveva la bocca girata dal lato opposto.

Quando sentimmo che se n'erano andati via, uscimmo dal nostro nascondiglio e andammo a trovare Francesco, che c'informò di quello che era avvenuto:

- C'era tanta gente e volevano ch'io dicessi loro dove eravate voi; ma nemmeno io lo sapevo. Volevano vederci e chiederci molte cose. C'era anche una donna di Alqueidao, che domandava la guarigione di un malato e la conversione di un peccatore. Per questa donna prego io; voi pregate per gli altri che sono molti.

Questa donna si fece rivedere poco dopo la morte di Francesco. Mi chiese di andare a indicarle qual era la sua tomba, perché voleva andarci a ringraziarlo per le due grazie che gli aveva domandato.

Un giorno, stavamo andando verso Cova da Iria, e, appena usciti da Aljustrel, fummo sorpresi da un gruppo di gente, in una curva della strada, che per vederci e sentirci meglio misero Giacinta e me in cima a un muretto. Francesco non volle che lo mettessero là in cima, come se avesse paura di cadere. Dopo, un po' una volta si allontanò e andò a mettersi accanto a un vecchio muro li dirimpetto. Una povera donna e un giovane, vedendo che non riuscivano a parlarci in privato come volevano, andarono a inginocchiarsi davanti a lui, a chiedergli che ottenesse loro dalla Madonna la guarigione del padre e la grazia di non andare in guerra. (Erano madre e figlio). Francesco s'inginocchia anche lui, si toglie il berretto e domanda se vogliono recitare il rosario con lui; dicono di si e cominciano a pregare; in poco tempo, tutta quella gente smettono di domandare semplici curiosità e si mettono anche loro in ginocchio a pregare. Dopo ci accompagnano a Cova da Iria. Durante il cammino, recitano con noi un altro rosario e là sul posto un altro ancora, e si congedano soddisfatti. La povera donna promette di tornare li a ringraziare la Madonna per le grazie che domanda, se le otterrà. E ritornò parecchie volte, accompagnata, non solo dal figlio, ma anche dal marito che ormai stava vene. (Erano della parrocchia di S. Mamede e noi li chiamavamo i Casaleiros).

Durante la malattia Francesco si mostrò sempre allegro e contento. A volte gli domandavo:

- Soffri molto, Francesco?

- Abbastanza, ma non importa. Soffro per consolare nostro Signore; e poi tra poco vado in cielo!

- Lassù non ti dimenticare di chiedere alla Madonna che faccia presto

a prendere anche me.

- Quello non lo domando! Tu sai bene che Lei non ti vuole lassù per

adesso.

Alla vigilia di morire mi disse:

- Senti! Io sto molto male; ormai mi manca poco per andare in cielo.

- Allora sta bene attento: non ti dimenticare di pregare molto per i peccatori, per il santo Padre, per me e per Giacinta.

- Va bene, io pregherò; ma senti, queste cose chiedile piuttosto a Giacinta, perché io ho paura di dimenticarmene, quando vedrò nostro Signore! E poi, prima di tutto io voglio consolare.

Un giorno, al mattino molto presto, sua sorella. Teresa viene a chiamarmi: «Vieni in fretta! Francesco sta molto male e dice che vuol dirti una cosa!». Mi vestii in fretta e andai da lui. Chiese alla madre e ai fratelli che uscissero dalla stanza, perché era una cosa segreta quello che voleva dirmi. Uscirono e lui mi disse:

- Il segreto è che dovrò confessarmi per fare la comunione e dopo morire. Vorrei che tu mi dicessi se mi hai visto fare qualche peccato e poi che tu andassi a domandare a Giacinta se anche lei mi ha visto farne qualcuno.

- Hai disubbidito qualche volta a tua madre - gli risposi - quando lei ti diceva di stare a casa e tu scappavi e venivi da me o andavi a nasconderti.

- È vero; questo è uno. Adesso va a domandare a Giacinta se lei ne ricorda qualche altro.

Andai e Giacinta, dopo aver pensato un po', mi rispose: «Senti! Digli che prima che la Madonna ci apparisse, rubò dieci centesimi al babbo, per comprare un'armonica a José Marto della Casa Velha; e che quando i ragazzi di Aljustrel tirarono pietre a quelli di Boleiros, anche lui ne tirò qualcuna!

Quando gli riferii queste parole della sorella, rispose: «Codesti li ho già confessati, ma li confesserò di nuovo. Può darsi che è a causa dì questi peccati che ho fatto, che nostro Signore è così triste! Ma io, anche se non morissi, non li rifarei mai più, adesso sono pentito». E, congiungendo le mani, recitò l'orazione: «O mio Gesù, perdonateci, liberateci dal fuoco dell'inferno, portate tutte le povere anime in cielo, specialmente quelle che hanno più bisogno». Poi aggiunse:

- Senti! Chiedi anche tu a nostro Signore che mi perdoni i miei peccati!

- Glielo chiederò, certo, sta tranquillo. Se nostro Signore non te li avesse già perdonati, la Madonna non avrebbe detto proprio l'altro giorno a Giacinta che sarebbe venuta a prenderti tra poco per portarti in cielo. Adesso io vado a messa e là pregherò Gesù nascosto per te.

- Senti! Chiedi al signor priore se mi dà la santa comunione.

- Ma certo.

Quando tornai dalla chiesa, Giacinta si era già alzata, e stava seduta sul suo letto. Quando mi vide, mi domandò:

- Hai pregato Gesù nascosto che il signor priore mi dia la santa comunione?

- Sì, gliel'ho chiesto.

- Dopo, in cielo, io chiederò per te.

- Come, chiederai? Se proprio l'altro giorno hai detto che non chiedevi.

- Ma quello era per farti portare in cielo tra poco! Ma, se tu vuoi, io chiedo e poi la Madonna fa come Le pare.

- Io voglio, si. Tu domanda.

- Ma si, sta tranquilla che io lo domando.

La lasciai lì e andai a fare le faccende di tutti i giorni, di lavoro e la scuola. Quando tornai, verso sera, era raggiante di gioia. Si era confessato e il signor priore gli aveva promesso di portargli il giorno seguente la santa comunione. Dopo aver fatto la comunione, il giorno seguente, diceva alla sorellina: «Oggi sono più felice di te, perché ho dentro al mio petto Gesù nascosto. Io vado in cielo, ma lassù pregherò molto nostro Signore e la Madonna che portino anche voi lassù in fretta».

Questo giorno lo passai quasi tutto insieme a Giacinta vicino al suo letto. Ormai non poteva più pregare e così ci chiese di recitare noi il rosario per lui. Dopo mi disse:

- Certamente in cielo avrò molta nostalgia di te! Oh, se la Madonna portasse anche te lassù tra poco!

- Macché nostalgia, figurati! Vicino a nostro Signore e alla Madonna, che sono così buoni!

- Giusto! Forse nemmeno me ne ricordo.

E adesso aggiungo io: «Forse non se n'è ricordato!!! Pazienza!!!».

Quando era ormai notte fatta, mi congedai da lui

- Francesco addio. Se vai in cielo questa notte, non ti dimenticare di me lassù.

- Non ti dimenticherò, no, sta' tranquilla. - E mi prese la mano destra e la strinse con forza per un bel po', guardandomi con le lacrime agli occhi.

- Non vuoi nient'altro? - gli domandai con le lacrime che ormai scorrevano anche a me sul viso.

- No, - mi rispose con un fil dì voce.

Siccome la scena stava per diventare troppo commovente, mia zia mi fece uscire dalla stanza.

- Allora, addio, Francesco. Arrivederci in cielo! Addio, arrivederci in cielo!...

E il cielo si avvicinava. Volò lassù il giorno dopo, nelle braccia della Madre celeste. Non se ne può descrivere la nostalgia. È una punta di tristezza che punge il cuore lungo il corso degli anni. È il ricordo del passato che echeggia sempre nell'eternità.

Era notte... e io placida sognavo che in sì festivo, sospirato giorno, celeste unione in una grande gara tra noi e gli angeli avveniva!

Che corona d'oro, nessuno immaginava, di fiorellini che la terra produceva, che uguagliasse quella che il cielo gli offriva

nell'angelica bellezza che faceva scordare la nostalgia!

Di labbra materne... delizia, sorriso, nel celeste paradiso... vive in Dio! Immerso nell'incanto di amore di delizie sovrane, passò questi anni..., sì brevi... Addio!!!

Siccome il rev. P. Galamba desidera le parole di canti profani, e già ne ho scritto alcuni nella storia di Francesco, prima d'incominciate un altro argomento, ne metto qui degli altri, perché il reverendo possa scegliere, se per caso ce n'è qualcuno che può servire a qualcosa.

LA MONTANINA

Montanina, montanina, dagli occhi castani, chi ti ha dato, o montanina, incanto sì grande? Incanto sì grande, non ho mai Visto! Montanina, montanina, abbi pietà di me!

Abbi pietà di me! Montanina, montanina, abbi pietà di me!!! Montanina, montanina, dalla gonna che svolazza, chi ti ha dato, o montanina, d'essere sì elegante?

Tanta eleganza non ho visto mai!!!

E così di seguito, fino alla fine, come la prima,

Montanina, montanina, dal petto color di rosa, chi ti ha dato o montanina, un color sì delicato? Un color sì delicato, non ho Visto mai! Ecc.

Montanina, montanina, adorna d'oro, chi ti ha dato, montanina, una gonna così scampanata?

Gonna così scampanata non ho visto mai! Ecc.

STA ATTENTA

Se vai in montagna, cammina adagio; attenzione a non cadere in qualche burrone! In qualche burrone non devo cadere, perché le piccole montanine verranno in mio aiuto. Verranno in mio aiuto, lo vogliano o no, le piccole montanine del mio cuore!!!

Verranno in mio aiuto,

verranno a curarmi:

sono le piccole montanine

buone ad amare!

Buone ad amare,

lo vogliano o no,

le piccole montanine del mio cuore!!!

Adesso, eccellenza reverendissima, verrà la pagina che mi costa di più fra quante l'eccellenza vostra mi ha fatto scrivere. Dopo che l'E.V. rev.ma, in privato, mi ha ordinato di scrivere le apparizioni dell'angelo, con tutti i suoi dettagli e particolari, e, nei limiti del possibile, perfino con le mie stesse intime reazioni, arriva il P. Galamba a chiedere anche l'ordine di farmi scrivere le apparizioni della Madonna.

«Le dia l'ordine, eccellenza», diceva poco tempo fa in Valenza il reverendo. «Eccellenza! Le faccia scrivere tutto, ma tutto. E le dica che le sarà causa di molti giri in purgatorio, il fatto di aver taciuto tante cose!».

Del purgatorio, in questo senso, non ho il mi